Il Consiglio di Stato – Sez. VI, con sentenza n. 341 del 27 gennaio, si è pronunciato sul termine per l’esercizio del potere di autotutela in edilizia.
Nel caso di specie, i giudici amministrativi di appello, nel pronunciarsi sulla legittimità del provvedimento con il quale il comune aveva disposto l’annullamento d’ufficio della concessione edilizia in sanatoria, dopo tredici anni dal rilascio della sanatoria, hanno ricordato che la Legge 7 agosto 2015, n. 124 ha fissato il termine massimo di diciotto mesi per l’annullamento d’ufficio di atti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici. Tale normativa, anche se non può essere applicata direttamente al caso in questione, costituisce un “prezioso (e ineludibile) indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della regola di condotta in questione”.
Perché la norma abbia un senso è necessario, in altri termini, non solo che l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto viziato non possa coincidere con la mera esigenza della restituzione all’azione amministrativa della legalità violata, ma anche che non possa risolversi nella semplice e astratta ripetizione delle stesse esigenze regolative sottese all’ordine giuridico infranto: una motivazione siffatta finirebbe logicamente proprio per esaurire l’apprezzamento del presupposto discrezionale in un esame nel mero riscontro della condizione vincolante (l’illegittimità dell’atto da annullare d’ufficio), con un palese (e inammissibile) tradimento della chiara volontà del legislatore.
Alla stregua delle coordinate ermeneutiche appena tracciate, risulta allora agevole rilevare che nell’atto controverso il solo accenno dedicato, nella motivazione, alla sussistenza dell’interesse pubblico alla rimozione degli atti annullati risulta formulato con esclusivo, astratto e testuale riferimento alle esigenze di tutela dell’igiene, del decoro e della collettività sottese alla normativa sulle distanze tra edifici recata dal DM n.1444/68.
Come già osservato, tuttavia, l’interesse pubblico che legittima e giustifica la rimozione d’ufficio di un atto illegittimo deve consistere nell’esigenza che quest’ultimo cessi di produrre i suoi effetti, siccome confliggenti, in concreto, con la protezione attuale di valori pubblici specifici, all’esito di un giudizio comparativo in cui questi ultimi vengono motivatamente giudicati maggiormente preganti di (e prevalenti su) quello privato alla conservazione dell’utilità prodotta da un atto illegittimo.
Una motivazione satisfattiva della presupposta esigenza regolativa consacrata nel testo dell’art.21 nonies l. cit. deve, quindi, spingersi fino all’argomentata indicazione delle specifiche e concrete esigenze pubblicistiche che impongono l’eliminazione d’ufficio dell’atto viziato e non può certo risolversi nella ripetitiva e astratta affermazione dei medesimi interessi alla cui soddisfazione la norma violata risulta preordinata.
Ne consegue che la mera indicazione dell’interesse pubblico all’igiene, alla sicurezza e al decoro, senza alcuna ulteriore argomentazione concreta circa le ragioni dell’attualità dell’esigenza della reintegrazione di quei valori (in relazione alla situazione di fatto prodottasi per effetto dell’attuazione dei titoli edilizi originari), si rivela del tutto insufficiente a legittimare la misura di autotutela, soprattutto in una fattispecie in cui, almeno per uno dei titoli annullati (il permesso di costruire in sanatoria), si è ingenerato nei destinatari dell’atto un serio affidamento circa la definitiva stabilità del titolo (in ragione del notevole lasso di tempo decorso tra i due atti).