«Il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata (…) e il suo godimento». L’art. 8 è il distillato della bozza di ddl (“Principi in materia di politiche territoriali e trasformazione urbana”) presentata dal ministro Lupi al Maxxi di Roma il 24 luglio scorso.
A distanza di nove anni dal ddl 3519/2005 noto come «legge Lupi», approvato dalla Camera nel Berlusconi III e poi fortunosamente bocciato in Senato col contributo della destra che lo ritenne antagonista alla tuttora vigente legge urbanistica n. 1150/1942, il ministro di rito ambrosiano ci riprova.
Nella nuova versione, stagionata e arricchita di autocrazia renziana, restano fermi quei principi di «istituzionalizzazione del “privatismo” in urbanistica e nel cemento» – come ha scritto Sergio Brenna – allora stigmatizzati da urbanisti e giuristi in un volume curato da Maria Cristina Gibelli (La controriforma urbanistica, 2005), ma vi si aggiunge un colpo di reni da crisi globale, scoppiata in seguito proprio alle pesanti speculazioni immobiliari.
La soluzione è semplice. Per Lupi infatti cemento e urbanistica coincidono con edilizia e la riforma è dunque finalizzata a trovare linfa per il settore immobiliare, stagnante. La soluzione è semplice: rendere virtualmente edificabile l’intera penisola, per rafforzare la rendita fondiaria attraverso l’istituzione dei diritti edificatori «trasferibili e utilizzabili (…) tra aree di proprietà pubblica e privata, e liberamente commerciabili» (art. 12).
Il «registro dei diritti edificatori» sancisce la finanziarizzazione della disciplina: si profila uno scenario di urbanistica drogata, dove perequazione, compensazione, premialità ed esproprio (sì, esproprio, cfr. art. 11, c. 2) sono ripagati con titoli tossici come in un gioco di borsa. Tutto il contrario della pianificazione.
La proposta legislativa fluttua nel completo distacco dalla concretezza fisica del territorio e dell’ambiente urbano che tenta di governare; lo slittamento dall’oggetto della pianificazione (città e territorio) alle procedure, genera, in sede di presentazione, affermazioni eversive disciplinarmente, politicamente e socialmente, tra cui spicca, per duplice grossolana aporia, «la fiscalità immobiliare come leva flessibile (sic) del governo del territorio».
Ma lungo l’articolato trapela la vera passione del ministro: le grandi opere, costruite tutte sul cemento.
L’istituenda DQT, Direttiva Quadro Territoriale, quinquennale e direttamente approvata dal presidente del consiglio dei ministri (art. 5), è configurata come un piano nazionale delle infrastrutture (affinché non ci si debba più confrontare con ponti sullo Stretto «proclamati e mai realizzati») che sovverte l’ordine delle cose, subordinando il paesaggio al governo del territorio, in contrasto col Codice dei beni culturali.
La pianificazione comunale (che si confronterà con la DQ Regionale) sarà suddivisa tra parte programmatoria «a efficacia conoscitiva e ricognitiva», e parte operativa, dove «il cambio di destinazione d’uso (…) non richiede autorizzazione» (art. 7, c. 10, che prosegue pudìco: «laddove la nuova destinazione d’uso non necessiti di ulteriori dotazioni territoriali rispetto a quelle esistenti»).
Comunque sia, il piano comunale è travolto e annientato dagli «accordi urbanistici» (art. 15), ispirati agli strumenti criminogeni di contrattazione pubblico/privato che tanto lustro hanno dato all’urbanistica milanese e romana.
La Lupi II punta sul «rinnovo urbano» realizzabile senza regola alcuna, «anche in assenza di pianificazione operativa o in difformità dalla stessa previo accordo urbanistico» (art. 17).
Assenti in tutto l’articolato i centri storici – privi di tutela come ormai è moda (si veda il piano strutturale fiorentino) – malgrado Vezio De Lucia, già a fronte del ddl 2005, avesse denunciato lo scorporo della tutela dall’urbanistica che si riduceva così «a disciplinare esclusivamente l’edificazione e l’infrastrutturazione del territorio».
Assenza gravata da un sentore di deportazioni di regime: proprietari o locatari degli immobili soggetti al rinnovo urbano (fino a demolizione e ricostruzione) saranno ospitati in alloggi di nuova costruzione «per esigenze temporanee o definitive» (art. 17, c. 10, corsivo nostro).
Questa la prospettiva: nuova edificazione provvisoria o definitiva nelle periferie, espulsione dei ceti sociali svantaggiati dalle zone urbane consolidate, o addirittura centrali, che diventano nuove aree di speculazione (ora che nella prima periferia anche le aree industriali dismesse diventano merce rara).
Le conquiste smantellate. Esemplare la pervicacia esercitata nello smantellamento delle conquiste degli anni ‘60-‘70. Un esempio per tutti: la disapplicazione del dm 1444/1968 sugli standard urbanistici, che attribuisce ad ogni cittadino italiano, dalla Calabria al Veneto, una quantità minima di servizi e attrezzature. Il principio cartesiano di eguaglianza peninsulare verrebbe ora spazzato via e sostituito da «dotazioni territoriali», calcolate regione per regione e il cui soddisfacimento sarebbe garantito anche dai soggetti privati.
Una riforma urbanistica nazionale, anziché riassumere in un unico testo le peggiori esperienze urbanistiche italiane del dopo Bassanini (Roma, Milano, Firenze etc.), avrebbe potuto (anzi, dovuto) riassumere – per estenderne i benefici all’intero paese – gli esempi positivi, che pure esistono nel panorama legislativo regionale.
A titolo d’esempio il ddl presentato dall’assessore Anna Marson al consiglio toscano, contenente una declinazione della “linea rossa”, auspicata dal dibattito disciplinare internazionale, da tracciare tra città e campagna. Ma anche il ribaltamento del paradigma territoriale da «risorsa» o «neutro supporto«, a «patrimonio» – ossia, da valore di scambio a valore d’uso – gioverebbe alla messa a punto di uno strumento sinceramente vòlto alla limitazione del consumo del suolo fertile.
Misure cui potrebbe aggiungersi il ripristino dell’art. 12 della Bucalossi (L. 10/1977) che legava i proventi delle concessioni edificatorie alle opere di urbanizzazione, al risanamento dei centri storici, all’acquisizione delle aree da espropriare, e il cui travaso nelle spese ordinarie dei comuni è stato riconosciuto come principale causa dell’alluvione cementizia dell’ultimo quindicennio.
Siamo dunque di fronte alla bozza di un ddl bifronte, alfiere da una parte del liberismo senza freni in difesa della proprietà privata, e dall’altra di un autoritarismo statalista – o autocrazia? – che anticipa il riformando art. 117 della Costituzione secondo il quale le norme generali sul governo del territorio tornerebbero ad essere materia di «esclusiva competenza» dello stato. «8100 regolamenti edilizi comunali – affermava Lupi – non sono un segno identitario, ma un elemento di confusione».
E al ministro delle Infrastruture, in luogo del Piccolo principe le cui citazioni hanno gettato nell’imbarazzo gli astanti di media cultura alla presentazione romana, proponiamo un’altra più edificante lettura, sul rapporto tra libertà di azione e vincolo: Lo sguardo da lontano di Claude Lévi-Strauss. «Ritengo – chiosava l’antropologo – che la libertà, per avere un senso e un contenuto, non debba, non possa, esercitarsi nel vuoto».
FONTE: Associazione dei Comuni Virtuosi