Costituisce ipotesi di abuso del diritto la sequenza di negozi giuridici rappresentata dalla donazione di un terreno edificabile, effettuata a favore di un familiare, e dalla successiva vendita del medesimo bene, in quanto preordinata unicamente a “rivalutare” il costo a suo tempo sostenuto dal donante, al fine di azzerare la relativa plusvalenza patrimoniale.
È quanto affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 20250 del 9 ottobre 2015, pronunciata con riguardo a una fattispecie risalente al periodo d’imposta 1999.
La vicenda processuale
Il contenzioso scaturisce dall’impugnazione dell’avviso di accertamento emesso nei confronti di un contribuente che aveva omesso la dichiarazione di una plusvalenza da cessione di un’area edificabile.
In particolare, l’ufficio aveva rilevato che, nella stessa data e dinanzi allo stesso notaio, con distinti atti:
- la parte aveva donato la propria quota di 3/4 di detto terreno alla figlia, per un valore dichiarato pari a X
- quest’ultima aveva, a sua volta, donato alla madre la quota di 1/4, al valore dichiarato di Y
- entrambe avevano ceduto le rispettive quote di proprietà per un corrispettivo esattamente pari alla somma dei valori dichiarati negli atti di donazione (X+Y).
L’ufficio, anche in ragione della contestualità dei negozi giuridici posti in essere, oltre che dei rapporti familiari tra le parti, riteneva che siffatto comportamento concretizzasse la situazione di apparenza nel possesso dei redditi, ai sensi dell’articolo 37, comma 3, del Dpr 600/1973, con conseguente accertamento, in capo al contribuente, della plusvalenza patrimoniale non dichiarata e recupero delle maggiori imposte dovute. La parte impugnava, dunque, l’atto impositivo, ottenendone l’annullamento dalla Ctp di Udine.
L’appello dell’ufficio avverso la pronuncia sfavorevole di prime cure veniva rigettato dalla Ctr di Trieste che, stante l’inapplicabilità al caso di specie dell’articolo 37-bis del Dpr 600/1973, rilevava l’insussistenza della plusvalenza in base al dettato dell’articolo 82 del Tuir (ora, articolo 68).
Il collegio, peraltro, avanzava il sospetto che l’intera operazione fosse finalizzata a occultare l’emersione di una plusvalenza tassabile, evidenziando – tuttavia – il difetto di prova da parte dell’Amministrazione finanziaria in ordine a tale supposta fattispecie elusiva. Avverso detta pronuncia, l’ufficio proponeva ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui resisteva il contribuente con controricorso.
La pronuncia della Cassazione
I giudici di legittimità ritengono fondati tutti i motivi di ricorso proposti dall’Agenzia, evidenziando, in particolare, come la Ctr abbia erroneamente fatto riferimento all’articolo 37-bis del Dpr 600/1973, quando invece l’atto impugnato era fondato esclusivamente sull’articolo 37, comma 3, dello stesso Dpr, e si sia limitata a constatare, sulla base di quanto formalmente risultante dagli atti negoziali in questione, l’insussistenza della plusvalenza patrimoniale, sicché ogni eventuale risparmio d’imposta attuato con l’intera operazione era da ritenersi lecito.
Così argomentando, tuttavia, la Ctr ha trascurato di considerare l’orientamento, già enunciato dalla Cassazione, secondo cui “in tema di accertamento rettificativo dei redditi, la disciplina antielusiva dell’interposizione, prevista dall’articolo 37, comma 3, del Dpr 600/1973, non presuppone necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione del regime fiscale che costituisce il presupposto d’imposta; ne deriva che il fenomeno della simulazione relativa, nell’ambito del quale può ricomprendersi l’interposizione fittizia di persona, non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo lo scopo elusivo attuarsi anche mediante operazioni effettive e reali…”.
Ne consegue che, “nel caso di specie, a prescindere dall’effettività di tutte le operazioni facenti parte del complesso negoziale in questione (e, quindi, a prescindere dal transito delle somme frutto di cessione tra donante e donatario dall’effettivo possesso di reddito in capo al contribuente e, comunque, dalla prova della sussistenza di una interposizione fittizia di persona), non vi è dubbio (…) che negozi, legittimi di per sé, siano stati, ove esaminati nel loro complesso, utilizzati in modo improprio, ingiustificato e deviante, consentendo in tal modo al contribuente di eludere l’applicazione del regime fiscale relativo alla realizzata plusvalenza…”.
I giudici di legittimità, dunque, attribuendo rilevanza alla circostanza di fatto che tutti i negozi siano stati stipulati lo stesso giorno e dallo stesso notaio rogante, concludono nel senso che “appare evidente la strumentalità delle donazioni di quote, poste in essere reciprocamente in un contesto familiare e in assenza di altre comprensibili ragioni, al solo scopo di precostituire (…) dei valori da mettere a confronto con il prezzo di vendita, al fine di non far risultare alcuna plusvalenza tassabile…”.
Osservazioni
Si evidenzia che l’orientamento espresso nella pronuncia in commento appare consolidato, trovando riscontro in numerosi precedenti giurisprudenziali, tra i quali si segnalano, per la conformità delle fattispecie concrete, le sentenze 22716/2011, 25671/2013 e 21794/2014. Nelle richiamate pronunce, la Corte ha ribadito, in materia di operazioni elusive, la possibilità di dichiarare inopponibili all’Amministrazione finanziaria – in applicazione del principio generale antielusivo desumibile dall’articolo 53 della Costituzione, ma anche dei principi comunitari – i benefici fiscali derivanti dalla combinazione di operazioni a ciò volte.
Si precisa, altresì, che l’attuale disposto dell’articolo 68, comma 1, secondo periodo, del Tuir, non consente più di ricorrere alla donazione al fine di “rivalutare” i beni suscettibili di generare plusvalenze all’atto della relativa alienazione: la norma, invero, prevede che, per la determinazione della plusvalenza, “si assume come prezzo di acquisto o costo di costruzione” non già il valore dichiarato nell’atto di liberalità, bensì il costo sostenuto a suo tempo dal donante.