Gli “eventi estremi” delle ultime settimane impongono di affrontare la sfida del cambiamento climatico anche sul versante istituzionale. Maggiori risorse europee e nazionali consetirebbero di non rincorrere le costose emergenze ma di pianificare gli interventi strutturali e di lungo periodo sui territori.

Decine e decine di millimetri d’acqua caduti in poche ore e una “stagione delle piogge” sempre più anomala, con territori colpiti da vere e proprie “bombe” che costringono i tecnici, e persino gli storici, a ripensare le portate dei fiumi; questa situazione si ripete ormai da alcuni anni e costringe ad una serie di riflessioni molto urgenti.
La prima, che riguarda soprattutto le pubbliche amministrazioni, coinvolge il tema delle risorse. La continua sequenza di criticità ambientali obbliga gli enti locali a frequentissimi interventi straordinari, ben oltre le disponibiità delle manutenzioni; simili interventi assommano spesso a svariati milioni di euro e di fatto costringono i medesimi enti, i Comuni in primis, a rivedere rapidamente i loro già magri piani di investimento, peraltro quasi paralizzati dai vincoli normativi sulla capacità di indebitamento. Quando, in un solo anno, diventa necessario far fronte a due o tre calamità naturali, il bilancio comunale è praticamente svuotato di gran parte delle risorse e, in concreto, si assiste ad un mutamento radicale della natura stessa della spesa pubblica.
La questione centrale della necessità di risorse, da reperire subito, si trasferisce poi dai Comuni, a cui è sottratta proprio da queste urgenze ogni reale capacità di programmazione di altre opere pubbliche, alle Regioni, ormai il solo ente disponibile a fronteggiare il tema del dissesto idrogeologico e delle ferite ambientali. La sostanziale scomparsa delle risorse delle Provincie, che vivono il paradosso di conservare ancora tutte le loro competenze senza disporre quasi più di un bilancio, aggrava la condizione di insostituibilità della Regione in termini prima di tutto finanziari.
Ma la Regione fatica sempre più a svolgere questo ruolo di “erogatrice di seconda istanza”, di destinataria delle continue richieste di calamità naturali perché deve fare i conti – in senso letterale – con uno Stato in larga parte assente, almeno per lungo tempo. La Regione, con un bilancio naturalmente destinato alla spesa santitaria, non può sostituire l’azione delle amministrazioni centrali che dovrebbero avere il coraggio, invece di mettere sul tavolo veri e propri piani di intervento pluriennali, ben più ampi delle pur importanti leggi obiettivo.

Ma perché ciò avvenga, occorre che la tutela del territorio attraverso l’investimento pubblico diventi un nodo politico assunto in toto dalle forze parlamentari. E‘ decisiva, in tal senso, una ridefinizione della spesa pubblica statale che ha bisogno di due condizioni. La prima è quella di riorientare verso la tutela del territorio una parte dei 50-60 miliardi di euro di investimenti pubblici impegnati ogni anno e la seconda è rappresentata dalla più volte auspicata modifica del Patto di stabilità perché ha davvero poco significato che la spesa corrente in Italia sia di circa 700 miliardi e quella per investimenti dieci volte più piccola.
Nella medesima direzione è auspicabile che si muova anche la programmazione dei fondi comunitari che dovrebbero recepire fino in fondo l’impronta ambientale, la cui prima connotazione dovrebbe essere appunto quella della messa in sicurezza del territorio.

Maggiori risorse europee e nazionali, insieme all’eliminazione del vincolo del Patto di stabilità per i cofinanziamenti regionali e locali consetirebbero di non rincorrere le costose emergenze ma di pianificare gli interventi strutturali e di lungo periodo sui territori.
Occorrerebbe inoltre una deroga anche ai vincoli sulle assunzioni di personale pubblico proprio per queste funzioni di tutela del territorio perché le risorse finanziarie per gli investimenti devono essere accompagnate dalla capacità di realizzarli nel modo più efficace, attraverso progettazioni ed esecuzioni di opere funzionali nel rispetto dei tempi e delle procedure. Per questo serve appunto personale degli enti che abbia qualità e riduca drasticamente il bisogno di consulenze esterne che generano pericolose dipendenze. Non è pensabile neppure immaginare una sovrastruttura abnorme della Protezione civile nazionale a cui delegare competenze che devono invece rimanere saldamente nelle mani di Comuni e Prefetture, coadiuvate da una intelligente e preparata rete di volontariato.  Affrontare la sfida del cambiamento climatico significa, sul versante istituzionale, una profonda trasformazione delle priorità.

FONTE: www.altreconomia.it

AUTORE: Alessandro Volpi (Università di Pisa)