Si rinnova la collaborazione con lo Studio legale Lisi con un contributo che dà evidenza delle fonti giuridiche che hanno portato il TAR del Friuli Venezia Giulia ad esprimersi a favore di un privato, che ha fatto ricorso rispetto al diniego ricevuto dal Comune. Non basta ricevere gli atti tramite PEC, se questi non sono leggibili la PA è tenuta a chiedere delucidazioni al mittente.
Una recente sentenza del TAR Friuli Venezia Giulia (n. 610 del 03/12/2014) apre un’interessante prospettiva in materia di Posta Elettronica Certificata, stabilendo che, in caso di mancata leggibilità di un documento a essa allegato non si possa semplicemente considerare tale allegato come mai esistito ma, piuttosto, che il destinatario debba richiedere al mittente chiarimenti in merito al documento stesso.
Il caso specifico riguarda un provvedimento di diniego in risposta a una Segnalazione Certificata di Inizio Attività inoltrata a un Comune da una società; tale Scia era stata trasmessa all’ente mediante un messaggio di PEC. Purtroppo, però, a causa dell’impossibilità di aprire i file allegati a tale messaggio PEC, il Comune è giunto, forse un po’ frettolosamente, a un provvedimento di diniego. La società coinvolta ha deciso di ribattere al suddetto diniego proponendo ricorso davanti al TAR.
È interessante ripercorrere l’iter logico-giuridico del giudice amministrativo che nella sentenza in oggetto ha ritenuto fondato il ricorso della società proponente e ha, quindi, annullato il provvedimento della PA.
La sentenza parte dall’analisi delle norme specifiche in tema di amministrazione digitale e PEC, correlate in questo caso alle norme del Codice civile, ma anche ai più generali princìpi di cui si deve tener conto nel definire i procedimenti amministrativi e che attengono in particolare al comportamento di leale collaborazione tra privati e PA.
Il giudice amministrativo ha posto a fondamento della sua decisione innanzitutto il riferimento all’articolo 3 del Codice dell’Amministrazione Digitale, che enuncia uno dei princìpi basilari del diritto all’utilizzo delle tecnologie da parte di cittadini e imprese.
L’articolo in esame prevede, infatti, che i cittadini e le imprese possano utilizzare le tecnologie telematiche per comunicare con le pubbliche amministrazioni, come nel caso in oggetto. Tale diritto, sempre sulla base della stessa norma, assume il valore di un diritto soggettivo tutelabile davanti al giudice amministrativo. Nella motivazione della sentenza è previsto, inoltre, che così come stabilito dall’art. 48 delCAD, la trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avvenga mediante la posta elettronica certificata: in questi casi la trasmissione telematica equivale a una notificazione a mezzo posta.
Il giudice amministrativo rileva inoltre come, sulla base di quanto previsto dall’art. 65 del CAD, le comunicazioni inviate per via telematica alle pubbliche amministrazioni siano valide se rispettano tutti i requisiti fissati alle lettere a), b), c) e c-bis) del medesimo articolo. Stabilito dunque che l’invio telematico della Scia attraverso la posta elettronica certificata è assolutamente valido sulla base della normativa vigente e risponde alle regole previste dalla legge, il Giudice passa a esplicitare le motivazioni per cui, nel caso specifico, il Comune non avrebbe dovuto negare la richiesta dell’attività prevista dalla Scia stessa per la mancata visibilità dell’allegato alla PEC.
Il Giudice amministrativo ha, infatti, chiarito che in questo caso l’ente pubblico avrebbe dovuto rispettare un principio del Codice Civile che regola i rapporti tra privati, ma che è applicabile anche ai rapporti tra privati e PA, quello previsto dall’articolo 1335 c.c., che disciplina la presunzione di conoscenza e il quale stabilisce che “la proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia”.
Indubbiamente questo è quanto è accaduto nel caso in esame poiché quando il sistema genera la ricevuta di accettazione della PEC e di consegna della stessa nella casella del destinatario[1] si determina una presunzione di conoscenza della comunicazione da parte del destinatario analoga a quella prevista, in tema di dichiarazioni negoziali di cui all’art.1335 Cod. civ. La presunzione ravvisabile è dunque che il destinatario sia venuto a conoscenza di una comunicazione perché questa è giunta a destinazione: spetta a questo punto al destinatario dimostrare di non essere venuto conoscenza della comunicazione, o di parte di essa, e non per sua colpa[2].
Il Giudice, inoltre, ha sottolineato che il Comune avrebbe dovuto comunicare al mittente la propria difficoltà a visionare il documento – senza tale comunicazione, infatti, il mittente non poteva di fatto conoscere le problematiche tecniche che avevano impedito al destinatario di visionare l’allegato – fissando inoltre un termine entro il quale la società avrebbe dovuto ritrasmettere la documentazione relativa alla Scia per ovviare al problema: in questo modo, il Comune avrebbe tenuto un comportamento di leale collaborazione con la società privata, adeguandosi a uno dei principi generali del procedimento amministrativo. Anche la stessa normativa[3] relativa alla presentazione della Scia prevede, d’altronde, che in caso di carenza dei requisiti previsti per la procedura di segnalazione, l’amministrazione fissi un termine entro il quale il segnalante sani le carenze rilevate al fine di evitare, se possibile, un provvedimento di diniego.
A parere di chi scrive, nel caso di specie il giudice amministrativo ha individuato una coerente soluzione a uno dei problemi che senza dubbio potrebbero ancora presentarsi nell’ambito delle comunicazioni tra PA, cittadini e imprese in considerazione della crescente diffusione degli strumenti di trasmissione telematica. La soluzione assunta dal giudice potrà essere un precedente non di poco conto per le PPAA che si troveranno a districarsi con le problematiche, anche tecniche, relative alla trasmissione telematica di dati e documenti. Ciò che di importante rileva dalla sentenza è che le regole relative alle procedure telematiche non devono essere interpretate in maniera avulsa dal contesto giuridico di riferimento, cioè dalle norme che caratterizzano il procedimento stesso: un’interpretazione “d’insieme” consente invece di formulare soluzioni che siano idonee a valutare le procedure inerenti alla trasmissione telematica, come si sarebbe effettivamente fatto rispetto alla ricezione di documenti inviati attraverso modalità tradizionali. Di conseguenza anche gli aspetti tecnici devono essere valutati sulla base di norme che consentono di rimediare ad anomalie superabili nell’ambito della procedura amministrativa, nel rispetto dei princìpi di economicità, efficacia e imparzialità. È però curioso constatare che nella sua motivazione il giudice sia partito proprio dal sottolineare il dovere delle PPAA di rispettare il diritto di cittadini e imprese a utilizzare le nuove tecnologie per comunicare con esse, quasi si sia voluto sottintendere che da parte di alcune pubbliche amministrazioni ci sia ancora qualche resistenza ad accettare come assolutamente valide e sostitutive della modalità cartacea le modalità telematiche di invio di istanze e comunicazioni; atteggiamento che purtroppo ancora si percepisce concretamente nel rapportarsi quotidianamente con le pubbliche amministrazioni e che crea una discrepanza rispetto agli obiettivi che si vorrebbero perseguire a livello nazionale e comunitario previsti dall’Agenda digitale europea. Gli stessi prevedono, infatti, specifici e concreti obblighi a cui le PPAA si devono adeguare a brevissimo termine e la cui attuazione dovrebbe ormai far propendere per una diffusa cultura del digitale e dell’utilizzo degli strumenti idonei a realizzarla.
[1] Si veda in tal senso l’art. 45 del D.Lgs. 82/2005
[2] In tal senso si veda la giurisprudenza maggioritaria in tema di raccomandata con ricevuta di ritorno “ si osserva – in termini opposti, rispetto a quanto invoca l’odierno ricorrente – che la lettera raccomandata – anche in mancanza dell’avviso di ricevimento – costituisce prova certa della spedizione attestata dall’ufficio postale attraverso la ricevuta, da cui consegue la presunzione, fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell’ordinaria regolarità del servizio postale, di arrivo dell’atto al destinatario e di conoscenza ex art. 1335 c.c. dello stesso. Spetta, pertanto, al destinatario l’onere di dimostrare di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di acquisire la conoscenza dell’atto (Cass. 16 gennaio 2006, n. 758). In altri termini, la produzione in giudizio della lettera raccomandata con la relativa ricevuta di spedizione attestata dall’ufficio postale – anche in mancanza dell’avviso di ricevimento – costituisce prova certa della spedizione e da essa consegue la presunzione, fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell’ordinaria regolarità del servizio postale, di arrivo dell’atto al destinatario e della sua conoscenza ex art. 1335 cod. civ. dello stesso e tale presunzione è superabile dal destinatario attraverso elementi di prova contrari (Cass. 13 aprile 2006, n. 8649; Cass. 25 settembre 2006, n. 20784)”. ( Cass. 24 luglio 2007, n. 16327).
[3] Art. 19 comma 3 della L. 241/1990.
FONTE: Forum PA
AUTORE: Simonetta Zingarelli