risparmioDa febbraio è possibile sanzionare le pubbliche amministrazioni che non seguono gli obblighi della 90/2014 in fatto di open data. Ma tutto è fermo. Una ricerca del Polimi dimostra che la maggior parte dei Comuni non rispetta la norma.

 

Gli open data in Italia sono entrati ufficialmente nell’era dell’illegalità. Sì, perché da metà febbraio sono scattate i termini previsti dal decreto legge 90/2014, convertito dalla Legge 114 dell’11 agosto, secondo cui le pubbliche amministrazioni erano obbligati a fornire i dati in formato aperto a partire da 180 giorni dall’entrata in vigore della legge. Con tanto di sanzioni per gli inadempienti.

 

Ma in Italia open data è la Cenerentola dell’Agenda digitale: non si merita l’attenzione del Governo. E’ solo per questo motivo che le pubbliche amministrazioni possono permettersi una così sfrontata inadempienza della legge.

 

Risulta che solo il 41 per cento dei Comuni pubblica i dati. Per di più, il 66 per cento nega di volerlo fare in futuro e solo uno su tre rispetta le Linee guida dell’Agenzia per l’Italia Digitale sulle modalità di pubblicazione dei dati. Non solo: “i dati pubblicati servono a poco, dato che le amministrazioni non mettono a disposizione quelli davvero significativi”, mi dice Ernesto Belisario, avvocato tra i massimi esperti della materia. Solo il 16 per cento li aggiorna (i dati vecchi sono poco utili) e solo il 30 per cento permette un’interazione. Motivi a loro discolpa: il 60 per cento dei Comuni dice di non avere personale interno da dedicare e il 43 per cento lamenta risorse economiche insufficienti. Il 25 per cento rileva “scarso interesse da parte della componente politica”, si legge nel rapporto del Politecnico.

 

In un Paese che lotta da sempre contro la corruzione pubblica e che avrebbe bisogno di rilanciare le proprie Pmi, non sfruttare la miniera di dati pubblici è un delitto.

 

La trasparenza è arma fondamentale e l’ultima conferma si è avuta in Grecia: Syriza, all’indomani della vittoria, ha lanciato una piattaforma digitale (“Diavgeia”, “Trasparenza”) dove le amministrazioni devono pubblicare leggi e decisioni prima che queste entrino in vigore.

 

In Italia invece tutto fermo, e l’ultimo Open Data Barometer (della World Wide Web Foundation) ci fa perdere due posizioni (ora 22esimi) nel 2014.

 

Non c’è più bisogno di confermare che la via da seguire è sia giusta sia ben battuta dagli altri. Ma gli open data toccano il nervo più debole della cultura digitale (e non solo digitale) italiana. E’ ciò che ci costringe ad andare contro un’atavica tradizione di burocrazia: di poteri chiusi nel proprio piccolo o grande recinto. Gli stessi problemi che rallentano tutto l’impianto dell’Agenda e hanno ostacolato l’Agenzia per l’Italia Digitale si manifestano in piena luce con la questione degli open data. Perché è proprio qui la prima linea per combattere quei retaggi. Ecco perché è la battaglia più difficile da vincere. Ma, per lo stesso motivo, è anche la più importante, per cambiare l’Italia al suono del digitale.