Negli ultimi anni il fenomeno del Civic Hacking ha dato un forte impulso all’impegno civico e alla partecipazione, specialmente nei contesti dove le competenze, l’esperienza e una buona dose di ‘nerdismo’ (indubbia e innata capacità di sviluppare applicazioni e servizi digitali per la rete) permettevano di mettere in opera molto rapidamente servizi e applicazioni utili per la comunità di riferimento.
Una delle definizioni che più mi piacciono sul Civic Hacking è indubbiamente questa: ‘Citizens developing their own applications which give people simple, tangible benefits in the civic and community aspects of their lives’.
Per anni ho studiato, divulgato e cercato di persuadere che questa era la strada giusta per arrivare al co-design dei servizi e delle applicazioni. Ovvero costringere la Pubblica Amministrazione al progressivo abbandono di quella supponente autorità nell’arrogarsi il diritto di costruire il rapporto (specialmente digitale) con i cittadini, senza alcuna mediazione. In sostanza il passaggio dall’eGovernment all’Opengovernment come presupposto per lo sviluppo e la gestione delle comunità intelligenti.
Gli esempi di riferimento partivano sicuramente da mysociety, organizzazione che per prima ha prodotto servizi da emulare facilmente in ogni luogo del pianeta, passando per okfn e altre ONG che ben hanno saputo guidare e indirizzare il movimento e il paradigma del governo aperto (Opengovernment appunto) e partecipato della cosa pubblica.
Il Civic Hacking oggi non è morto, anzi è vivo e vegeto e per farsi un’idea basta curiosare su cosa è successo lo scorso giugno in America.
Detto questo, però, il solo approccio al digitale non si dimostra esaustivo per un forte cambiamento della Pubblica Amministrazione. Anzi, potremmo dire paradossalmente che con il digitale se tutto diventa più facile e più veloce è anche vero che molti settori pubblici tradizionali rimangono immutati e poco aperti e propensi a un rapporto partecipativo. Per cambiare davvero tutto, e in meglio, dobbiamo ripensare ad azioni analogiche, come ad esempio l’ ‘hurban hacking’, detto anche ‘culture jamming’, che rappresenta una serie di attività o azioni di protesta sociale e politica nel contesto cittadino. A differenza dei ‘flash mob’ questo modello di pirateria urbana usa piccole e rapide azioni mirate e creative per migliorare la città. Oppure potremmo cercare una forma collaborativa e costruttiva come i ‘lab’ (creative lab, living lab, social innovation lab o contamination lab, insomma chiamateli come volete) luoghi e pensatoi dove prima di erogare servizi, applicazioni, nuovi processi o semplici trasformazioni urbane, ci si confronta fra Pubblica Amministrazione, mondo della ricerca, mondo dell’imprenditoria, cittadinanza attiva, hackers e chi più ne ha più ne metta in un serrato confronto e dialogo propedeutico al lancio di progetti insistenti sul bene comune e sui cambiamenti territoriali delle comunità intelligenti.
Dunque un equilibrio difficile fra l’approccio distruttivo e quello costruttivo, fra la collaborazione e la sostituzione che, forse, si potrebbe meglio disegnare e consolidare con il ‘crowdfunding civico’.
Diversamente dal civic hacking, dai lab e/o da azioni di hurban hacking che quasi sempre vengono svolte da pochi a vantaggio di molti, il crowdfunding civico apre prospettive di coinvolgimento più ampie e, soprattutto in settori che vanno ben oltre il digitale e la rete.
Quando si tratta questo tema si porta sempre ad esempio una delle prime azioni in tal senso che si sviluppò a New York ben due secoli fa. Alla fine dell’Ottocento, infatti, la rivista The World, di proprietà di Joseph Pulitzer, lanciò una raccolta di fondi dal basso per finanziare il piedistallo e l’installazione della Statua della Libertà, dopo che il Comitato preposto era riuscito a raccogliere solo 150.000 dei 300.000 dollari necessari. (Fonte Wikipedia). La quota integrativa fu accumulata grazie a oltre 120.000 piccole donazioni personali della gente comune di New York, che di fatto garantì alla Statua della Libertà la collocazione attuale dove oggi ancora possiamo ammirarla.
E nell’800 non c’era internet, ma nemmeno il digitale. Dunque il crowdfunding civico può oggi sfruttare le tecnologie digitali come le piattaforme web e il denaro elettronico, ma si adatta perfettamente ad ogni tipo di finanziamento collettivo atto a sostenere progetti pubblici, opere e grandi costruzioni comprese.
Con il crowdfunding civico si può iniziare a collaborare sul serio con gli enti pubblici, le associazioni di cittadini e le organizzazioni no profit con l’obiettivo di finanziare progetti di ogni tipo legati all’ambiente e al territorio, all’arte e alla cultura e a tutto ciò che è innovativo e pubblicamente utile in ottica di Smart City o comunque di comunità intelligente che vive in un luogo intelligente, dinamico e partecipato.
Gli esempi si sprecano e anche le prime applicazioni reali non sono certo banali. Dai cittadini veneziani che si autofinanziano per gestire un’ isola, ai deputati del M5S che costruiscono una strada in Sicilia finanziandosi con gli stipendi dei consiglieri regionali fino ai 7.111 donatori che hanno permesso il restauro del bellissimo Portico di S.Luca a Bologna.
Mutuando questi modelli e potendo contare ormai su piattaforme web mature per la raccolta dei fondi, dobbiamo ora far lavorare la fantasia e stimolare l’impegno. Perché dunque non proporre al nostro Comune un progetto e infine cofinanziarlo in parte con le quote raccolte dal finanziamento popolare?
L’idea di smart city può concretizzarsi solo se la comunità di riferimento è tanto smart quanto le tecnologie che la supportano e se la partecipazione diventa modello di riferimento per progettare ogni servizio e ogni progetto che tenda a una miglior qualità della vita.
Ora, però, il punto fondamentale è dare un ruolo alla Pubblica Amministrazione che le consenta in un contesto così open di garantire rispetto dei regolamenti, opportunità per tutti e disciplina. Siamo nel campo più ampio della sharing economy che specialmente nella vecchia Europa, e in particolare in Italia sta creando mal di pancia infiniti per scarsa propensione culturale e assenza o ritardo di leggi e regolamenti che la possano disciplinare.
Infatti non è per niente facile proporre questi modelli di finanziamento dal basso, perché al netto dei problemi legislativi c’è un problema culturale di fondo che è stato ben riassunto da Alessio Barollo in uno studio pubblicato lo scorso anno, Crowdfunding civico e bilancio partecipativo: ‘Se vogliamo aggiungere la parola “civico” a “crowdfunding” dobbiamo necessariamente spostare la visuale. Se il crowdfunding può tranquillamente funzionare con i suoi meccanismi che partono anche da piccole comunità di interesse, il crowfunding civico, aggiungendosi come modalità di sviluppo urbano e territoriale non può prescindere dal considerarsi qualcosa di necessariamente più strutturato ed includente e non può essere destinato solo ad un pubblico di iniziati, smart e smanettoni… il crowdfunding civico deve parlare a tutti!
L’idea che molti “addetti ai lavori” si sono fatti sulle possibilità del crowdfunding usato dalle pubbliche amministrazioni secondo me è troppo semplicistica e non tiene conto che tutte regole del crowdfunding che conosciamo, nel crowdfunding civico, subiscono una accelerazione, una amplificazione in termini di effetto. Prendiamo per esempio il tema della CONDIVISIONE o della CO-CREAZIONE di un progetto: se nel crowdfunding un “progetto partecipato” è un valore ancora opzionale, nel crowdfunding civico è una costante obbligatoria, continua, inevitabile. Le amministrazioni pubbliche e i progettisti che vogliono intraprendere un percorso del genere devono tenere in considerazione questa variabile e fare un lavoro che parte soprattutto dal linguaggio’
Dunque questa consapevolezza culturale e di metodo deve prevalere sull’arroganza e sulla boria che ormai è insostenibile. Lo Stato, le istituzioni, la Pubblica Amministrazione in genere non possono più fare la voce grossa perché la scarsità di risorse non glielo permette e devono accettare di farsi aiutare, cambiando pelle, linguaggio, approccio e sensibilità.
A #sce2015 , fra pochi giorni, affronteremo questo tema provando anche a capire in che modo la Pubblica Amministrazione possa garantire un’accelerazione sul tema, magari aprendo una stagione nuova di rinnovata collaborazione e partecipazione sui progetti che insistono sul bene comune.
Invertire la sensazione fastidiosa dello ‘Stato che ti mette le mani intasca’ e provando quella piacevole sensazione da ‘cittadino che mette i soldi in tasca allo Stato’ inteso come facilitatore e gestore del bene comune e della qualità della vita. La nostra vita, la nostra città, il nostro stato.