Cadono le barriere, non importa che si lavori per un ente pubblico o un privato, noi siamo quell’ente. Il web ha rimescolato le carte in tavola: le relazioni interne si sovrappongono a quelle esterne in un flusso di comunicazioni e reti di relazioni che identificano e caratterizzano Istituzioni o aziende. In questo contesto un buon networking è fondamentale. Ne parliamo con Gianluigi Cogo.
Le nuove tecnologie hanno cancellato il confine tra il volto ufficiale e il dietro le quinte; che sia un’istituzione pubblica o un azienda privata non importa, siamo quello che appariamo e la nostra rete di contatti o meglio networking ci definisce. La serie di relazioni e flussi comunicativi “peer to peer” in cui siamo immersi creano una zona diffusa di scambio: comunicativo, affettivo, di servizio. Si può fare business sui social? Sicuramente sì, in quanto luoghi virtuali in cui si afferma più di qualsiasi altro la centralità della persona e delle relazioni. Partecipazione, apertura e trasparenza diventano i nuovi dogmi per creare visibilità, credibilità e reputazione, ma due più due non sempre fa quattro. Il web, terra di opportunità ma anche di grandi illusioni, bisogna saperlo governare. Ne parliamo con Gianluigi Cogo che ha da poco pubblicato, assieme a Simone Favaro, per Maggioli il libro “Business Networking”.
Iniziamo con una provocazione: il web non si discosta tanto dalla vita reale, importa più chi si conosce che cosa?
Assolutamente sì. Si ribaltano dei falsi miti, si pensa che sul web possano nascere delle amicizie, in realtà non è così. Si instaurano delle modalità che poco si discostano dalla realtà e molto dipende dalle persone, che vengono rimesse al centro delle relazioni. Certo gli strumenti contano, ma la negoziazione e la relazione tra le persone è ancora il punto di partenza. Che grazie ai social si possa usufruire di un enorme patrimonio di contatti a costo zero e che basti aggiungere una persona tra i propri contatti per avviare un’attività, sono alcune delle tante illusioni in cui si cade nel web.
Eppure secondo una ricerca IPSOS il 68% degli italiani riconosce l’importanza del networking on line. Secondo la tua esperienza è davvero questa la fotografia del nostro paese?
Non credo proprio. Io ogni anno, con il mio corso universitario dedicato proprio ai social, mi relaziono con centinaia di ragazzi e tocco con mano qual è la loro idea e, a oggi, il nostro Paese considera ancora i social network come strumenti di entertainment puro. Ma se andiamo a vedere, sotto c’è tutta un’infrastruttura che permette di fare applicazioni, single sign on e tutta una serie di attività diverse, ma chi ha questa consapevolezza? Sono pochissimi. Lo stesso vale per Twitter, quanti lo usano professionalmente? Qualche redazione giornalistica o qualche azienda che ha un social media team e lo usano per fare customers care, ma sono una percentuale piccolissima.
Parliamo un po’ di reputazione sul web. Quanto conta e come si costruisce. Ci sono dei trucchi o al tempo non c’è rimedio?
L’unico trucco è l’etica, punto. Ci sono degli strumenti per monitorare la propria web reputation, ma sono l’etica e la coerenza che fanno una reputazione sul web. Dimentichiamo che la rete ha una memoria formidabile e spesso per fretta tralasciamo tutte quelle azioni che sono di semplice buon senso, ma che fanno la nostra reputazione e finiamo per pagarne le conseguenze. Discorso che vale per le aziende, ma anche per le persone
Tutto ciò è riferibile anche alla PA?
Io dico sempre che per capire come mai le PA non riescono ad essere persuasive o attraenti sul web, basta guardare le loro reti intranet. Se ci sono delle difficoltà a relazionarsi all’interno, difficilmente ci riuscirà all’esterno. Come dicevo le barriere sono cadute, ormai casa e lavoro sono la stessa cosa. Gli strumenti che utilizzi nel privato, sono gli stessi che utilizzerai a lavoro. E’ quel fenomeno che viene definito consumerization. La Pa non si scrollerà mai di dosso la muffa, quel modo di essere vista come appesantita dalla burocrazia se non aderisce a tutte quelle dinamiche che avvengono nel privato in materia di customers care. Perché quando parliamo di social la PA ha sempre una policy che fissa gli orari del servizio? Io credo che la PA si debba avvicinare al modello d’impresa, superare la dimensione temporale, e non pensare a come regolamentare la rete.
In merito alle persone che fanno l’azienda, mi sembra che oggi la linea che separa la gestione delle relazioni interne ad una azienda e la gestione di quelle esterne sia venuta meno. Che ne pensi?
Ormai questo confine non esiste più. Io vado un po’ controtendenza rispetto a quelli che dicono che bisogna avere un profilo personale e uno aziendale/istituzionale sui social. Sono contrario. Tu fai parte dell’azienda o dell’Istituzione, perché il discorso è lo stesso per la PA, 24 su 24. Quella è la tua immagine e la tua reputazione, non è che la puoi distinguere o separare a seconda del profilo. L’azienda e la PA parlano attraverso i propri dipendenti. Ormai le barriere sono cadute, parliamo di flussi di comunicazioni, di reti, non parliamo più di mercati quando pensiamo ad un’azienda o ad un’istituzione.
Un esempio di un business networking ben riuscito.
Pensiamo a FIAT Brazil che, sfruttando il proprio networking di 29.000 contatti, lanciò il primo esperimento di progettazione di un’automobile in modalità ”crowdsourced”, la FIAT Mio. Furono raccolte 22.000 proposte e il progetto è stato poi rilasciato in licenza Creative Commons, così da poter essere riutilizzato e sviluppato anche da comunità esterne a FIAT. Quindi non brevetta il progetto, ma essendo FIAT partecipe al processo ha un vantaggio sui competitor e, avendo esternalizzato la fase di ricerca e sviluppo, ha ottenuto un grande risparmio che può essere investito nella produzione.
FONTE: Forum PA
AUTORE: Eleonora Bove