Trust 2Il trust è un istituto giuridico di origine anglosassone, che è stato formalmente riconosciuto dall’ordinamento italiano per effetto della ratifica ed esecuzione, avvenuta con la legge 364/1989, della Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata a L’Aja il 1° luglio 1985. A oggi, tuttavia, ancora manca una specifica normativa interna, che disciplini l’istituto sotto il profilo civilistico. A tal proposito, lo scorso 19 marzo 2015 è stato presentato un disegno di legge (ddl S. 1826) che prevede l’introduzione nel codice civile della disciplina del contratto di fiducia, che dovrebbe rappresentare l’equivalente italiano del trust. Il disegno di legge è stato assegnato alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente il 16 giugno 2015, ma il relativo esame non ha avuto ancora inizio; pertanto, il riferimento normativo in materia di trust resta ancora la Convenzione de L’Aja, il cui scopo precipuo è proprio quello di armonizzare le regole del diritto internazionale privato in materia di trust, consentendone il riconoscimento negli ordinamenti di civil law privi di una disciplina interna.

 

Ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione, “per trust si intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o di un fine specifico”. In altri termini, mediante il trust un soggetto (settlor) trasferisce la proprietà di tutti i propri beni (o di una parte di essi) a un altro soggetto (trustee), affinché quest’ultimo li amministri nell’interesse di un terzo (beneficiary) ovvero in vista del perseguimento di uno specifico fine. Il beneficiario, pur non essendo formalmente proprietario dei beni oggetto del trust, gode dei vantaggi e delle utilità derivanti dalla loro gestione, disponendo altresì di rimedi a carattere reale e obbligatorio per tutelare i suoi interessi nel caso in cui il trustee non rispetti gli impegni assunti (breach of trust). Il settlor può altresì nominare un guardiano (protector), con il compito di vigilare sull’operato del trustee nell’interesse del beneficiario (o dei beneficiari) o per garantire l’effettiva realizzazione dello scopo del trust.

 

Il trust, quindi, si sostanzia in un negozio giuridico fondato sul rapporto di fiducia/affidamento tra disponente (settlor) e gestore (trustee): non a caso il termine anglosassone trust significa, appunto, fiducia.

 

Il medesimo articolo 2 della Convenzione stabilisce che il trust presenta le seguenti caratteristiche essenziali:

 

 

  • i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee (effetto segregativo)

 

  • i beni del trust sono intestati a nome del trustee

 

  • il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge.

 

 

Secondo la dottrina maggioritaria, la Convenzione, limitandosi a indicare i requisiti minimi affinché si possa affermare di essere in presenza di un trust, delinea un modello di trust “amorfo”, vale a dire uno schema negoziale adattabile tanto agli ordinamenti di common law quanto a quelli di civil law. In seguito alla ratifica, l’Italia ha quindi riconosciuto legittimo il modello di trust tracciato dall’articolo 2 della Convenzione.

 

La caratteristica certamente più significativa del modello di trust convenzionale è rappresentata dalla “segregazione patrimoniale”, per effetto della quale i beni in trust formano un patrimonio separato rispetto al patrimonio residuo del settlor, del trustee e del beneficiario: pertanto, i loro eventuali creditori personali non potranno mai aggredire i beni in trust. Questi ultimi, infatti, risultano essere “blindati”, in quanto sottoposti a un duplice vincolo: di destinazione (essendo finalizzati al raggiungimento dello scopo indicato dal settlor nell’atto istitutivo) e, appunto, di separazione patrimoniale. È bene precisare, inoltre, che esclusivo proprietario dei beni in trust è il trustee, che, tuttavia, subisce una compressione dell’esercizio del suo diritto in quanto egli è tenuto ad amministrare i beni in modo tale da garantire il raggiungimento dello scopo indicato nell’atto istitutivo. In altri termini, mentre la titolarità del diritto di proprietà del trustee è piena, l’esercizio di tale diritto è invece limitato e funzionalizzato.

 

Tali caratteristiche hanno indotto parte della dottrina e della giurisprudenza a dubitare della conciliabilità del trust con l’ordinamento giuridico italiano sotto il profilo, in particolare, della disciplina del diritto di proprietà (articolo 832 e seguenti del codice civile), della tipicità dei diritti reali, della responsabilità patrimoniale (articolo 2740 cc) e della tassatività degli atti trascrivibili. Tuttavia, nonostante l’iniziale diffidenza verso un istituto del tutto estraneo alla tradizione giuridica italiana e in attesa di un intervento disciplinatorio del legislatore, la questione della compatibilità deltrust con il nostro ordinamento è stata risolta positivamente dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie. Ciò non solo con riferimento ai trust esteri istituiti secondo il modello convenzionale e in grado di produrre effetti giuridici nell’ordinamento interno proprio in virtù della ratifica della Convenzione, ma anche e soprattutto con riguardo al trust “interno” o “domestico”, vale a dire untrust istituito in Italia, in cui gli elementi essenziali (beni, settlor, trustee, beneficiario) sono in prevalenza residenti o esistenti in Italia.

 

Ad ogni modo, vista la perdurante mancanza nell’ordinamento italiano di una disciplina autonoma dell’istituto, il settlor, nello scegliere, ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione, la legge applicabile altrust, deve necessariamente fare riferimento a una normativa estera, anche nelle ipotesi in cui tutte le parti siano italiane e il trust possa quindi definirsi interno. In questa ipotesi, quindi, l’unico elemento di estraneità è rappresentato dalla legge applicabile.

 

In presenza di un trust estero, in cui gli elementi di estraneità riguardino i soggetti coinvolti e i beni intrust, lo Stato italiano, in base all’articolo 11 della Convenzione, procede al riconoscimento e il trustsarà regolato sulla base della Convenzione e delle norme di diritto internazionale privato. Il riconoscimento, in linea di principio, non è però obbligatorio, dato che l’articolo 13, a salvaguardia della sovranità degli Stati, conferisce allo Stato il potere di rifiutarlo qualora gli elementi costitutivi deltrust, all’infuori della legge regolatrice richiamata, rinviano a un diverso ordinamento che non conosca l’istituto.

 

Il trust, quindi, si è progressivamente affermato anche in Italia quale strumento flessibile e versatile sotto il profilo operativo, capace di soddisfare la richiesta di strumenti giuridici nuovi in grado di rispondere efficacemente alle esigenze emergenti dal mutato contesto economico-finanziario, ma anche familiare e sociale, nonché aziendale, non in grado di essere soddisfatte mediante i tradizionali modelli giuridici. Il trust è suscettibile, infatti, di molteplici applicazioni pratiche, ponendosi in particolare come utile strumento di pianificazione patrimoniale, successoria e tributaria.

 

La pratica conosce molteplici tipologie di trust. A titolo esemplificativo, possiamo ricordare le seguenti:

 

 

  • trust autodichiarato, in cui è lo stesso disponente a essere designato quale trustee (in tal caso, il vincolo di destinazione sui beni si forma all’interno dello stesso patrimonio del disponente)
  • expressed trust, costituito mediante specifico atto istitutivo e destinato ad avere efficacia quando il disponente è in vita
  • trust testamentario o mortis causa, istituito mediante disposizione testamentaria e destinato ad avere efficacia dopo la morte del disponente
  • trust revocabile, con il quale il disponente si riserva la facoltà di revocare l’attribuzione dei diritti ceduti al trustee
  • trust di famiglia, utilizzato per disciplinare rapporti di convivenza e regolare anticipatamente alcuni casi di successione e, soprattutto, di separazione e divorzi ovvero per proteggere il patrimonio familiare, impedendo il frazionamento della proprietà
  • trust immobiliare, utilizzato allo scopo di creare un patrimonio di immobili separato dal resto dei beni
  • trust commerciale, istituito per disporre la segregazione patrimoniale di asset aziendali per il perseguimento di finalità inerenti l’attività d’impresa
  • trust liquidatorio, istituito allo scopo di segregare una massa di beni destinati al soddisfacimento di creditori
  • trust di scopo, funzionale al perseguimento di un determinato fine (ad esempio, trust di garanzia)
  • fixed trust, in cui il disponente individua i beneficiari con l’atto istitutivo e predetermina la ripartizione tra gli stessi del patrimonio e del reddito del trust
  • trust discrezionale, in cui il disponente si riserva la facoltà di nominare in un momento successivo i beneficiari ovvero rimette al trustee o a un protector (guardiano) l’individuazione degli stessi, delle loro rispettive posizioni, delle modalità e dei tempi di attribuzione dei benefici.

 

 

Attesa la sempre crescente rilevanza del trust nell’ordinamento italiano, non sorprende che particolare importanza abbia assunto nel corso del tempo anche la relativa disciplina fiscale. A tal proposito, si ricordi che la Convenzione nulla dispone sul trattamento tributario dei trust; pertanto, l’individuazione del relativo regime impositivo è lasciata alla autonomia dei singoli Stati. In Italia, il legislatore fiscale ha espressamente dettato disposizioni in materia di trust per la prima volta con l’articolo 1, commi da 74 a 76, della legge 296/2006 (Finanziaria 2007): nel prosieguo del lavoro, quindi, si passeranno in rassegna i profili tributari del trust, tanto ai fini delle imposte dirette quanto ai fini delle imposte indirette.