La Corte regolatrice del diritto (sentenza n. 25913/2015), avendo correttamente ritenuto illegittimo un avviso di accertamento emesso da un Comune ai fini della richiesta di maggiore tassa per lo smaltimento di rifiuti solidi urbani fondata sull’applicazione ai centri commerciali della categoria “gallerie d’arte”, ha imposto al giudice di merito di individuare quella ritenuta più confacente, in quanto il contribuente non aveva dichiarato tutta la superficie tassabile.
Il giudice di legittimità difatti, innanzitutto, conferma la propria giurisprudenza sul fatto che la delibera comunale di determinazione della tariffa in materia di Tarsu prevista dall’articolo 65 del Dlgs n. 507/1993, è un atto amministrativo a contenuto generale o collettivo, che si rivolge a una pluralità indistinta – per quanto determinabile ex post – di destinatari, occupanti o detentori, attuali o futuri, di locali e aree tassabili. In questo senso, vengono citate le pronunce n. 7044/2014 e n. 22804/2006, per la quale ultima la tassa – da commisurare a determinati parametri, quantità e qualità dei rifiuti prodotti – non esclude che il Comune possa individuare in base ad altri parametri reperibili entro i limiti della logica e dell’equità contributiva.
L’effetto desunto da tale giurisprudenza è che detta tassa vada “di conseguenza interpretata dal giudice tributario allo specifico fine di commisurare il tributo” e, quindi, nella controversia oggetto della decisione di legittimità in rassegna, il giudice di merito deve individuare la più appropriata categoria di attività svolte nei locali tra quelle indicate nel cennato regolamento comunale, in quanto il tributo è dovuto per legge nazionale dall’articolo 62 del decreto legislativo citato per l’occupazione o la detenzione di locali e aree scoperte a qualsiasi uso adibiti. Tale asserzione è ritenuta valida ancorché lo stesso Comune confessi che nessuna delle distinte categorie tariffarie era direttamente applicabile alle superfici di uso comune posti nei centri commerciali e che “il contrario rilievo del Comune, secondo cui invece la tariffa dovevasi considerare solo ricognitiva di un criterio tariffario già desumibile dal regolamento Tarsu (art. 16), è del tutto assertorio”.
Peraltro, la suprema Corte aveva anche ritenuto irrilevante che il regolamento comunale di determinazione della tariffa in materia di Tarsu contenesse anche la disposizione di chiusura, secondo cui “per i locali ed aree eventualmente adibiti ad usi diversi da quelli sopra classificati si applicano le tariffe relative alle voci rispondenti agli usi per attitudine quantitativa e qualitativa a produrre solidi urbani”.
La ragione della rimessione della controversia al giudice di merito si fonda sulla natura del processo tributario individuata in quella di impugnazione-merito e non di impugnazione-annullamento, con la conseguenza che il giudice tributario deve stabilire il corretto criterio di tassazione, in quanto non si è di fronte a vizi di forma dell’atto impositivo, ma di accertamento del tributo da pagare. Da qui, il principio di diritto evidenziato dalla sentenza del supremo Collegio in commento, secondo cui l’eventuale inapplicabilità ratione temporis della tariffa indicata dall’ente impositore nell’avviso di accertamento non legittima, però, l’annullamento dell’atto tributario, una volta appreso che l’atto era stato notificato, dovendo il giudice di merito individuare il corretto criterio di tassazione, una volta emerso che l’atto era stato notificato in ragione dell’infedele dichiarazione della superficie imponibile.
Invero, proprio tale notazione risulta stonata, in quanto sembrerebbe che l’attribuzione del potere al giudice tributario di individuare quale sia la corretta debenza del tributo trovi la sua giustificazione – non vuol dirsi esclusivamente – ma anche su elemento fattuale diverso da quello indicato dal Comune, ossia la diversa superficie tassabile (mai entrata nel dibattito processuale), individuato nella categoria di attività applicabile a quella attività svolta nella parti comuni dei centri commerciali.