La Corte costituzionale, con sentenza n. 78 depositata il 7 aprile 2016, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 3-bis, del Dpr 115/2002, recante disposizioni e regolamentari in materia di spese di giustizia (Tusg), in relazione alle modifiche apportate dalla Stabilità 2014, in base alle quali “il contributo unificato deve essere determinato per ciascun atto impugnato anche in appello”. La Ctp di Campobasso, sollevava, in relazione agli articoli 3, 53, 24, 113 e 117, comma 1, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del comma 3-bisdell’articolo 14 del Tusg con riferimento alla parte modificata dall’articolo 1, comma 598, lettera a), della legge 147/2013 (Stabilità per il 2014). Secondo i giudici della Ctp, la novella recata dalla legge di stabilità, nella parte in cui dispone che “il contributo unificato deve essere determinato, per ciascun atto impugnato anche in appello”,violerebbe i principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza (articolo 3), di capacità contributiva (articolo 53), del diritto di difesa (articolo 24) e della tutela giurisdizionale (articolo 113), nonché del diritto a un processo equo e a un rimedio giudiziale effettivo (articolo 117, comma 1, in relazione agli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo).
In particolare, la Ctp sottolineava che l’applicazione della norma censurata imporrebbe di chiedere un identico esborso a titolo di contributo unificato sia a chi attivi un solo processo proponendo un unico ricorso per più atti sia a chi, proponendo un ricorso per ciascun atto impugnato, provochi l’attivazione di molteplici processi. Imporre al soggetto che propone un solo ricorso avverso più atti lo stesso esborso richiesto a chi impugna ciascun atto con più ricorsi significa, inoltre, violare il principio di uguaglianza dei contribuenti e della capacità contributiva. Peraltro, osservano ancora i giudici di prime cure, il legislatore tributario, così facendo, discriminerebbe il processo tributario dal processo amministrativo e civile, nei quali il contributo predetto è rapportato al valore della lite.
Normativa e prassi di riferimento
L’articolo 13, comma l, del Tusg, ha introdotto un nuovo regime di tassazione degli atti giudiziari, costituito da un “contributo unificato”, che ha sostituito il sistema previgente basato sul pagamento di una marca da bollo da versare anticipatamente al momento dell’iscrizione a ruolo. L’articolo 37, comma 6, del Dl 98/2011, ha modificato il Dpr 115/2002, estendendo l’applicazione del contributo unificato anche al processo tributario. In particolare, l’articolo 9 del Tusg dispone che “è dovuto il contributo unificato di iscrizione a ruolo, per ciascun grado di giudizio, nel processo civile…., nel processo amministrativo e nel processo tributario”. Relativamente all’ammontare, il legislatore ha ancorato l’importo del contributo unificato al valore della controversia.
L’articolo 14 del Dpr 115/2002 fissa i criteri per l’individuazione degli obbligati al pagamento e per la determinazione del valore dei processi. Specificamente, il comma 3-bis stabilisce che nei processi tributari il valore della lite si determina ai sensi del comma 5 (ante modifiche apportate dal Dlgs 156/2015) dell’articolo 12 del Dlgs 546/1992, in base al quale “per valore della lite s’intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogato con l’atto impugnato; in caso di controversie relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste”. Sull’argomento, il ministero dell’Economia e delle Finanze, con circolare n. 1/Df del 21 settembre 2011 e direttiva n. 2/Dgt del 14 dicembre 2012, ha fornito i primi chiarimenti sulla corretta applicazione del tributo in argomento. In particolare, la direttiva n. 2/Dgt del 2012 ha chiarito che – in caso di un unico ricorso contro più atti – il calcolo del contributo unificato deve “essere fatto con riferimento ai valori dei singoli atti e non sulla somma di detti valori”.
Successivamente, questa linea interpretativa è stata confermata dalla legge 147/2013 (Stabilità 2014) che, con l’articolo 1, comma 598 (norma sottoposta al vaglio della Corte costituzionale), ha disposto che il valore della lite deve essere determinato con riferimento a ciascun atto impugnato anche in appello.
In relazione al valore della lite, si rappresenta che, ai sensi dell’articolo 12, comma 5, del Dlgs 546/1992, «Per valore della lite si intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato; in caso di controversie relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste». A seguito delle modifiche alla disciplina della difesa tecnica, introdotte dal Dlgs 156/2015, il riferimento al “valore della lite” è stato spostato dal comma 5 al precedente comma 2 dell’articolo 12. Parallelamente, il richiamo al “comma 5”, contenuto nell’articolo 14 del Dpr 115/2002, è stato sostituito con quello al comma 2 del medesimo articolo 12. A ogni modo, la Corte costituzionale ha chiarito che la modifica recata dal Dlgs 156/2015, successiva all’ordinanza di rimessione, non incide, sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate, essendo rimasto sostanzialmente immutato il quadro normativo considerato dal giudice rimettente.
Decisione
Per la Corte costituzionale, le questioni di legittimità sollevate sono inammissibili sotto tutti i profili argomentati. Quanto alla segnalata diseguaglianza, contraddittorietà e irragionevolezza nella determinazione del “valore della lite”, quale base imponibile, rispetto al presupposto del tributo – che il giudice rimettente vorrebbe strettamente ancorato al valore unitario del processo come previsto per il rito civile – per i giudici costituzionali, non viene spiegato compiutamente perché, a fronte di una disomogeneità dei criteri fissati per determinare il valore della lite nei singoli ambiti processuali, solo il criterio del rito civile dovrebbe essere assunto quale tertium comparationis.
Stesse considerazioni sono espresse con riferimento alle censure sollevate in riferimento all’articolo 53 della Costituzione, per violazione del principio della capacità contributiva. Secondo il costante orientamento della stessa Corte costituzionale, infatti, il principio della capacità contributiva come limite alla potestà di imposizione di cui all’articolo 53 della Costituzione non è invocabile e non può operare con riguardo alle spese di giustizia. La Consulta ha ritenuto, altresì, inammissibili le censure proposte in riferimento agli articoli 24 e 113 della Costituzione, in quanto il giudice rimettente non ha chiarito per quale motivo il diritto di difesa sarebbe limitato dal meccanismo di determinazione del contributo unificato nel ricorso cumulativo oggettivo, mentre non lo sarebbe con riguardo a quello previsto per ogni singolo atto, quasi ad affermare che “la possibilità di difendersi” è legata alla prerogativa “di scegliere le modalità cumulative anziché quelle individuali”.
Osservazioni
Il processo tributario si caratterizza per la sua natura impugnatoria; con il ricorso, sostanzialmente, la parte chiede al giudice l’annullamento parziale o totale dell’atto impositivo. Pertanto il parametro di riferimento diventa, nel processo tributario, non già la domanda di parte, ma l’atto impositivo oggetto di impugnativa.
D’altronde, se è di tutta evidenza che ogni atto impositivo scaturisce da distinti procedimenti accertativi, è altresì vero che la domanda di annullamento formulata con il ricorso del contribuente impone al giudice di valutare la legittimità della pretesa tributaria in relazione ai singoli atti impositivi, anche se impugnati cumulativamente con un solo ricorso. Dal punto di vista processuale, ognuno dei singoli atti mantiene la propria autonomia accertativa e di valore. Invero, anche il provvedimento che definisce il giudizio contiene tante singole statuizioni quanti sono gli atti impositivi di cui si chiede l’annullamento.
Sulla questione si registra un orientamento delle commissioni di merito favorevole alla legittimità della norma in questione. Sostanzialmente, i giudici delle Commissioni tributarie affermano che “impugnare più atti con un unico o separati ed autonomi ricorsi è una facoltà del ricorrente che non può tradursi in un risparmio nel versamento del contributo unificato in conseguenza di un cumulo giuridico ed economico insussistente. La possibilità di trattare diverse questioni tra loro connesse risponde all’esigenza di economia processuale, che non può tradursi in una economia nella determinazione del contributo unificato in favore del ricorrente in relazione alla sua scelta processuale. Le singole questioni trattate in un unico ricorso rimangono autonome ed avranno, alla conclusione del giudizio, una loro autonoma definizione. Pertanto, nel ricorso cumulativo il contribuente è tenuto a versare il c.u. sulla base dei singoli importi di ciascun atto impugnato”. Per tutte, si richiamano a titolo esemplificativo: Ctp di Frosinone, sentenza 1218//2014; Ctp di Torino, sentenza 1255//2014; Ctp di Foggia, sentenza 226//2015; Ctp di Bari, sentenza 182/2013.
Assume rilievo, infine, anche la precisazione svolta dalla Consulta in merito alla nuova formulazione dell’articolo 12 del Dlgs 546/1992 per quanto concerne il valore della lite. Avendo la Corte affermato che con la modifica recata dal Dlgs 156/2015 è rimasto sostanzialmente immutato il quadro normativo, ha in realtà posto un “blocco” a eventuali questioni di legittimità costituzionale che potrebbero essere sollevate a seguito della citata modifica normativa.