casa madre e filialiIndeducibili le spese attribuite in percentuale dalla casa madre alle “figlie”? Il meccanismo di ripartizione per quote, predeterminate in base a un accordo interno al gruppo, non permette di verificare – in termini quantitativi – il rapporto costi e benefici.


Non sono deducibili i costi per la gestione e l’implementazione del portale relativo alla telefonia mobile se, sulla base del cost share agreement con la casa madre, non è possibile verificare in termini quantitativi il rapporto tra tali costi e beneficio ottenuto dalla consociata italiana in termini di utilità economica. Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 25566 del 27 ottobre scorso.

 

I fatti

 

Con avviso di accertamento Ires e Irap, emesso a seguito della verifica nei confronti di una srl e relativo al periodo di imposta 2006 (Unico 2007), l’ufficio ha recuperato a tassazione costi per circa 695mila euro, ritenuti indeducibili perché non oggettivamente determinabili e conseguenti a servizi resi dalla casa madre alla consociata italiana per la gestione e l’implementazione del portale relativo alla telefonia mobile. In particolare, si trattava di costi relativi al settore business unit – mobile services che, per prassi della casa madre, venivano riaddebitati, cioè ripartiti, tra le varie società del gruppo con un mark up del 7%, sulla base di un cost sharing agreement, cioè di un accordo di ripartizione tra la casa madre e le varie società europee figlie, tra le quali quella italiana.

 

I costi di manutenzione del portale, quindi, venivano ripartiti tra le società “figlie” in base a una percentuale, espressa come parte del fatturato totale, predeterminata anche se variabile e calcolata sul reddito di una unità aziendale del Paese. Di conseguenza, la srl italiana, sostenendo la propria quota di spesa, contribuiva ai costi inerenti la propria attività (funzionamento del portale) e ne otteneva ricavi. L’ufficio ha ritenuto che il riaddebito dei costi fosse avvenuto in maniera automatica, senza alcuna correlazione con il beneficio specifico ricevuto dalla srl italiana, e ha recuperato, quindi, i costi del settore “mobile”, riportati nel conto “indirect allocation”.

 

Altalenante l’esito del giudizio di merito. In particolare, la Commissione regionale ha riformato la sentenza di primo grado sia in relazione alla violazione dell’articolo 12, comma 5, legge 212/2000, non ravvisando alcun motivo di nullità dell’avviso di accertamento, sia nel merito, ritenendo legittimo il recupero dei costi. La società ha proposto ricorso per cassazione lamentando, tra l’altro, l’errata valutazione del concetto di “inerenza” ex articolo 109 Tuir, poiché la Commissione regionale aveva posto in correlazione costi e ricavi, piuttosto che costi e attività di impresa anche solo potenzialmente idonea a produrre utili. La Corte ha ritenuto infondato il motivo e ha affermato che il meccanismo di ripartizione dei costi, “… prevedendo una percentuale predeterminata ed essendo un accordo interno al gruppo, … non permette di verificare con evidenza in termini quantitativi concreti il rapporto tra i costi ed il beneficio …” della contribuente italiana (Cassazione, 25566/2017).

 

Osservazioni

 

I giudici di legittimità sono stati chiamati a fornire un’interpretazione del principio di inerenza exarticolo 109, comma 5, Tuir vigente ratione temporis, cioè della correlazione tra le componenti reddituali, positive e negative. Nella fattispecie al suo esame, la Corte ha osservato che i costi attenevano alla manutenzione del portale internet della società italiana, attraverso il quale quest’ultima proponeva i propri prodotti offerti gratuitamente. I ricavi della contribuente, quindi, non derivavano dalla vendita di tali servizi, quanto piuttosto dall’ospitare pubblicità sul portale; circostanza questa che permetteva l’offerta gratuita dei servizi stessi.

 

Al fine di riconoscere la loro deducibilità, restava, però, da stabilire in quale misura quei costi, nella loro interezza, potevano essere funzionali al raggiungimento di un’utilità per la sola società italiana. I giudici di legittimità, quindi, hanno evidenziato che non era in contestazione il fatto storico dell’effettivo sostenimento dei costi e il loro meccanismo di ripartizione, quanto piuttosto la circostanza che lo stesso meccanismo, prevedendo una percentuale predeterminata e derivando da un accordo interno al gruppo, non permetteva di verificare con chiarezza la correlazione diretta tra costi e benefici per la società italiana. E proprio tale rapporto, secondo l’ufficio, era uno degli elementi fondamentali per la valutazione relativa all’inerenza dei costi dedotti.

 

Dello stesso avviso la Corte, secondo la quale il concetto di inerenza, nei rapporti infragruppo, deve essere contenuto entro confini di ragionevolezza e proporzionalità e cioè non lo si può disgiungere da quello di coerenza e utilità economica dei costi (cfr Cassazione, 9036/2013, 21184 e 27043 del 2014 e 10270/2017). Rapporto che deve essere provato dal contribuente, non solo allegando l’accordo o dimostrando che la spesa sia stata contabilizzata, ma dimostrando anche coerenza e utilità economica del costo (cfr Cassazione, 9560/2016, 9466 e 11094 del 2017), ad esempio, chiarendo che le stesse spese sono state oggetto, anche per la loro congruità, di analisi accurata da parte di una società di revisione e di valutazioni del capo settore (responsabile del relativo centro di costo), con conseguente certificazione della corretta percentuale del lavoro svolto da ciascun settore in favore delle controllate (cfr Cassazione, 6939/2008).

 

E tale prova era a maggior ragione necessaria nella fattispecie esaminata, in presenza di un accordo tra società non indipendenti, dove l’allocazione dei costi finiva per determinare uno spostamento di ricchezza imponibile all’interno dello stesso gruppo e, quindi, da uno Stato all’altro. Del resto, per i servizi tra società infragruppo, il problema della congruità della spesa (nel senso riferibilità dei costi, nella misura in cui essi sono stati determinati, alla utilità della singola società) non è solo messo in luce dall’Agenzia delle entrate (circolare 32/1980) ma anche dalle linee guida Ocse. Ciò in quanto la non congruità di un costo, soprattutto nei rapporti infragruppo, può essere una spia della sua non inerenza (cfr Cassazione, 25566/2017).

 

E tali conclusioni risultano ancora più condivisibili se, come emerge dalla sentenza impugnata, se la ripartizione dei costi è avvenuta secondo un criterio stabilito antecedentemente, sulla base del quale il costo per la società non era fisso e immodificabile ogni anno, ma variava in una percentuale tra il 7,50 e il 4,70% del costo sostenuto dalla casa madre per il settore “mobile”, senza tuttavia essere ancorato alla situazione concreta di corrispondenza quantitativa dei costi con l’effettiva utilità derivata dal servizio per la consociata italiana.