miliardi, pugliaCon sentenza n. 35773 del 28 agosto 2015, la sezione feriale penale della Corte di cassazione ha rilevato che, laddove si proceda per il reato di omessa dichiarazione (articolo 5 del Dlgs 74/2000), il giudice può ritenere superata la soglia di punibilità alla luce dei soli ricavi, se non emergono evidenze circa eventuali costi.

 

Iter processuale

 

La vicenda in esame riguarda la conferma in appello della sentenza di primo grado, con la quale il tribunale aveva condannato il ricorrente accusato di reato continuato, perchè, in qualità di titolare della propria impresa individuale, ometteva di presentare le prescritte dichiarazioni annuali per tre periodi d’imposta (2005-2006-2007), con conseguente evasione delle imposte dirette per un ammontare complessivo superiore, per ciascun anno, alla soglia di punibilità prevista dalla norma (77.468,53 euro), ex articolo 5 del Dlgs 74/2000.

 

Nel ricorrere per cassazione, l’imputato sostiene la violazione di legge e l’illogicità della motivazione, in quanto la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto superata la soglia di punibilità per ciascuno dei tre anni di imposta convalidando il contenuto dell’accertamento fiscale, che però non aveva contabilizzato alcun costo in relazione all’attività svolta; né la Corte d’appello avrebbe considerato che la soglia di punibilità, fissata nel capo di imputazione, fosse inferiore a quella, invece, necessaria per l’integrazione del reato contestato, come sancito dalla Corte costituzionale con sentenza 80/2014.

 

Motivi della decisione

 

Nel decidere la vertenza, la Corte suprema ritiene infondato il ricorso per gli anni non prescritti (2006 e 2007), affermando il principio secondo cui, ai fini della contestazione del reato di omessa dichiarazione, la determinazione delle imposte evase, in assenza di elementi che facciano ritenere l’esistenza di poste passive, può essere effettuata anche tenendo in considerazione i soli ricavi aziendali.

 

Al riguardo, si ricorda che, ai sensi dell’articolo 109 del Dpr 917/1986, i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza, e che, in base all’articolo 1 del Dlgs 74/2000, per “imposta evasa” si intende la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto di somme eventualmente versate.

 

In assonanza col dato normativo, la giurisprudenza di legittimità (cfr Cassazione 21213/2008, 8982/2011 e 37335/2014) ha chiarito in materia che, nel caso di omessa dichiarazione, per imposta evasa deve intendersi l’intera imposta dovuta e incombe esclusivamente sul giudice penale il compito di procedere, allo scopo di verificare l’avvenuto o meno superamento della soglia di punibilità, all’accertamento e quindi alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venirsi a sovrapporre e anche a entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria.

 

Il tributo effettivamente dovuto, poi, va correlato al risultato economico conseguito e deve essere determinato – sulla base delle risultanze probatorie acquisite nel processo penale – dalla contrapposizione dei ricavi e dei costi d’esercizio fiscalmente detraibili, in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formali che caratterizzano l’ordinamento tributario.

 

Nel caso in esame, quanto al calcolo dell’imposta evasa, la Corte d’appello – sottolinea la sezione penale – ha osservato come il ricorrente si fosse limitato a contestare la correttezza della metodologia utilizzata dal tribunale per verificare il superamento della soglia, rappresentata dall’ammontare dell’imposta, affermando che, a tal fine, si sarebbe tenuto conto dei soli ricavi e non anche dei costi, senza però specificare quali voci passive sarebbero state ignorate e quale l’incidenza di esse sul calcolo finale.

 

Ne deriva quindi che, se mancano altri elementi, non addotti dall’imputato in ragione dell’assenza di documentazione contabile (Cassazione, sentenza 35858/2011), l’imposta evasa può essere determinata unicamente dai ricavi aziendali; inoltre, la mancata esibizione delle scritture contabili può essere considerata come un’omessa dichiarazione.

 

Occorre rilevare, altresì, che la sentenza 35773/2015 ha stabilito anche un altro importante principio, consistente nel fatto che, anche considerando i principi enunciati dalla Corte costituzionale nella sentenza 80/2014, resta punibile il soggetto che, per il tramite della condotta di omessa dichiarazione, perpetrata anteriormente al 17 settembre 2011, abbia evaso un’imposta superiore alla soglia di 77.468,53 euro, ma inferiore a quella di 103.291,38 euro (all’epoca rispettivamente previste per l’omessa e per l’infedele dichiarazione), soglia – quest’ultima – che la Consulta ha “esteso” all’omesso versamento Iva di cui all’articolo 10-ter del Dlgs 74/2000.

 

Questa norma prevedeva, infatti, una soglia di punibilità più bassa (50mila euro) di quelle stabilite anteriormente alle modifiche introdotte dall’articolo 2, comma 36-vicies semel, Dl 138/2011, aggiunto dalla legge di conversione 148/2011, per i reati in materia di dichiarazione.