Secondo la Corte di giustizia, nell’ambito del regime di autoliquidazione, il principio fondamentale di neutralità dell’Iva esige che la detrazione dell’imposta a monte sia accordata se gli obblighi sostanziali sono soddisfatti, anche se taluni obblighi formali sono stati omessi dai soggetti passivi. Diversa può essere la soluzione se la violazione di tali requisiti formali abbia l’effetto di impedire che sia fornita la prova certa del rispetto dei requisiti sostanziali. Conseguentemente, l’amministrazione finanziaria, una volta che disponga delle informazioni necessarie per dimostrare che i requisiti sostanziali siano stati soddisfatti, non può imporre, riguardo al diritto del soggetto passivo di detrarre l’imposta, condizioni supplementari che possano produrre l’effetto di vanificare l’esercizio del diritto medesimo.
Per quanto riguarda gli acquisti intracomunitari di beni imponibili, i requisiti sostanziali esigono che tali acquisti siano stati effettuati da un soggetto passivo, che quest’ultimo sia parimenti debitore dell’Iva attinente a tali acquisti e che i beni di cui trattasi siano utilizzati ai fini di proprie operazioni imponibili. Se l’Amministrazione dispone di tutte le informazioni necessarie per accertare la sussistenza di detti requisiti sostanziali, il diritto a detrazione dell’Iva dovuta non può essere negato al contribuente per non aver esso assolto gli obblighi risultanti dalle formalità stabilite dalla normativa nazionale. Il diritto a detrazione sorge nel momento in cui l’imposta detraibile diviene esigibile (Corte di giustizia, sentenze: 11 dicembre 2014, causa C‑590/13, Ideex; 8 maggio 2008, C‑95/07 e C‑96/07, Ecotrade SpA; 6 febbraio 2014, C‑424/12 Fatorie).
Recentemente, tuttavia, la Corte di giustizia ha precisato che l’articolo 193 della direttiva 2006/112/Ce del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, quale modificata dalla direttiva 2010/88/Ue del Consiglio, del 7 dicembre 2010, dev’essere interpretato nel senso che è debitore dell’imposta sul valore aggiunto solo il soggetto passivo che fornisce una prestazione di servizi quando quest’ultima è fornita a partire da un’organizzazione stabile situata nello Stato membro in cui tale imposta è dovuta. L’articolo 194 della direttiva 2006/112, quale modificata dalla direttiva 2010/88, dev’essere interpretato nel senso che esso non consente all’amministrazione tributaria di uno Stato membro di considerare debitore dell’imposta sul valore aggiunto il destinatario di una prestazione di servizi fornita a partire da un’organizzazione stabile del prestatore, quando sia quest’ultimo sia il destinatario di tali servizi siano stabiliti sul territorio dello stesso Stato membro, anche se tale destinatario abbia già assolto tale imposta basandosi sull’errata supposizione che detto prestatore non disponesse di un’organizzazione stabile in tale Stato. Il principio di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto dev’essere interpretato nel senso che osta a una disposizione nazionale che consente all’amministrazione tributaria di negare al prestatore di servizi il rimborso di tale imposta, da questi assolta, quando non è stato riconosciuto al destinatario di tali servizi, che pure ha pagato detta imposta per gli stessi servizi, il diritto di detrarla, per il motivo che non disponeva del corrispondente documento fiscale, allorché la normativa nazionale non consente la rettifica dei documenti fiscali in presenza di un avviso di accertamento definitivo (Corte di giustizia, sentenza 23 aprile 2015, C-111/14, GST – Sarviz AG Germania).
La tematica delle conseguenze sull’esercizio del diritto di detrazione in caso di violazioni degli obblighi documentali è stata affrontata dai Giudici di legittimità nazionale con riguardo agli acquisiti dall’estero. In proposito, è stato chiarito che, gli acquisti intra-Ue non producono – in via di principio – effetti sostanziali, non determinando l’insorgenza di debiti e crediti di imposta, giacché gli obblighi, meramente formali, a essi connessi vengono, in definitiva, a tradursi in una sorta di fiction iurisconsistente nell’annotazione di una partita di giro nei due registri Iva, senza risvolti di carattere sostanziale (Cassazione, 7872/2015). Quindi, se è stata omessa solo la doppia registrazione delle fatture integrate o autofatture nei registri previsti dagli articoli 23 e 25 del decreto Iva ed è dimostrato – o non è controverso – che gli acquisti siano fatti da un soggetto passivo dell’Iva e che le merci siano finalizzate a proprie operazioni imponibili, le inadempienze accertate a carico del contribuente non generano danni erariali, poichè il risultato fiscale finale sarebbe stato comunque identico sul piano impositivo per effetto della prevista neutralizzazione bilaterale dell’Iva.
D’altro canto, considerato che nel descritto regime dell’inversione contabile nulla è, in via di principio, dovuto all’Erario, l’omessa registrazione di dette fatture non può essere neppure assimilata, di per sé, a un’operazione inficiata da frode fiscale o da un uso abusivo delle norme comunitarie. A meno che l’Amministrazione finanziaria non alleghi e dimostri la mancanza dei requisiti sostanziali suindicati, come nel caso in cui venga accertata l’inesistenza dell’operazione documentata da dette fatture, sicché essa – ponendosi al di fuori del meccanismo del reverse charge – venga a concretare un mezzo per conseguire un’indebita detrazione di imposta, ovvero deduca e dimostri che la violazione dei suddetti requisiti formali abbia avuto l’effetto di impedire, in concreto, l’acquisizione della prova certa del rispetto dei requisiti sostanziali suindicati (Cassazione, sentenze 7577/2015, 20515/2013, 20486/2013).
Alla luce dei predetti chiarimenti giurisprudenziali deve ritenersi superato il precedente orientamento giurisprudenziale secondo cui la detrazione postula la fattura con addebito dell’imposta e la sua annotazione nel registro degli acquisti. Nell’ipotesi in cui ricorrano i presupposti del reverse charge, soltanto il sistema delle due annotazioni consente l’assunzione del debito avente a oggetto l’Iva a monte e la successiva detrazione di questa dall’Iva a valle. Ciò non vale ove la contribuente, avendo omesso le due annotazioni, non si è dichiarata debitrice dell’Iva a monte; per conseguenza, non si è verificato il presupposto d’insorgenza del diritto di detrazione dall’Iva (Cassazione, 24022/2013). Ancora, secondo tale orientamento, la violazione degli specifici adempimenti cui è ancorata la tassazione delle operazioni intracomunitarie, essendosi la contribuente limitata a contabilizzare le fatture in contestazione nel libro giornale, tenuto ai fini delle imposte sui redditi, determina l’inosservanza oltre che degli obblighi formali anche degli obblighi sostanziali di versamento del tributo. Conseguentemente, il diritto alla detrazione dell’imposta non può esserle riconosciuto (Cassazione, 6925/2013).
Il pro-rata di detrazione
Secondo la giurisprudenza europea, il calcolo del pro-rata di detrazione costituisce un elemento del regime delle detrazioni. Spetta alle autorità tributarie di ogni Stato membro stabilire il metodo di determinazione del diritto alla detrazione. In particolare, il pro-rata è il regime che si applica al diritto alla detrazione dell’Iva qualora quest’ultima si riferisca a beni o a servizi che sono utilizzati dal soggetto passivo sia per operazioni che danno diritto a detrazione sia per operazioni che non conferiscono tale diritto, vale a dire beni e servizi il cui uso è misto. In tal caso, la detrazione è ammessa solo per la parte dell’Iva che è proporzionale all’importo delle prime operazioni assoggettate a imposta (Corte di giustizia, sentenza del 18 dicembre 2008, Royal Bank of Scotland, C‑488/07). Al contrario, i beni e servizi utilizzati dal soggetto passivo unicamente per effettuare operazioni economiche che danno diritto a detrazione non ricadono nella sfera di applicazione dell’articolo 17, paragrafo 5, della sesta direttiva, ma sono ricompresi, quanto al regime di deduzione, nell’articolo 17, paragrafo 2, della stessa direttiva (Corte di giustizia, sentenza 6 settembre 2012, causa C‑496/11).
Secondo la giurisprudenza dell’Unione, la direttiva Iva consente una deroga alla regola generale del pro-rata, autorizzando gli Stati membri di prevedere uno degli altri metodi di determinazione del diritto alla detrazione elencati dalla direttiva Iva. Si tratta di disposizioni volte a trovare applicazione in fattispecie determinate, poiché sono finalizzate, segnatamente, tenendo conto delle caratteristiche specifiche proprie delle singole attività del soggetto passivo, a consentire agli Stati membri di pervenire a risultati più precisi nel calcolo del pro-rata di detrazione. Pertanto, il soggetto passivo può essere obbligato a effettuare la detrazione dell’Iva in funzione della destinazione reale della totalità o di parte dei beni o servizi utilizzati (Corte di giustizia, sentenza 10 luglio 2014, C‑183/13). Uno Stato membro, qualora autorizzi soggetti passivi misti a operare la detrazione prevista da dette disposizioni secondo la destinazione della totalità o di parte dei beni e servizi, può consentire che il contribuente calcoli l’importo detraibile, per settori nei quali tali soggetti passivi effettuano soltanto operazioni imponibili, includendo “sovvenzioni” esenti da imposta nel denominatore della frazione utilizzata per determinare il pro-rata di detrazione (Corte di giustizia, sentenza 16 febbraio 2012, causa C‑25/11).
Nel caso di una società con più stabili organizzazioni in Stati membri diversi, secondo la giurisprudenza europea, la stabile organizzazione situata in uno Stato membro e la sede principale situata in un altro Stato membro costituiscono un unico soggetto d’Iva. Ne deriva che un unico soggetto passivo è sottoposto, oltre al regime applicabile nello Stato in cui ha sede, a tanti regimi di detrazione nazionali quanti sono gli Stati membri in cui dispone di stabili organizzazioni. Ai fini della determinazione del pro-rata di detrazione dell’Iva a essa applicabile, una società, la cui sede principale sia situata in uno Stato membro, non può prendere in considerazione la cifra d’affari realizzata dalle sue succursali stabilite in altri Stati membri (Corte di giustizia, sentenza 12 settembre 2013, C‑388/11, Le Crédit Lyonnais).
Il pro rata di detrazione è costituito da una frazione avente, al numeratore, la cifra d’affari relativa alle operazioni soggette a imposta e, al denominatore, la cifra d’affari totale, mentre il n. 2 dello stesso articolo stabilisce, in via di deroga, che non si tiene conto, in particolare, dell’importo della cifra d’affari relativa alle “operazioni immobiliari accessorie”. Tuttavia, la sesta direttiva non contiene in nessun punto la definizione di tale nozione di “operazione immobiliare accessoria”. A tale proposito, come risulta dalla giurisprudenza della Corte riguardante la finalità suddetta, un’attività economica non può qualificarsi come “accessoria”, ai sensi dell’articolo 19, n. 2, della sesta direttiva, qualora essa costituisca il prolungamento diretto, permanente e necessario dell’attività imponibile dell’impresa (sentenza 11 luglio 1996, causa C‑306/94, Régie dauphinoise) oppure implichi un impiego significativo di beni e di servizi per i quali l’Iva è dovuta (sentenza 29 aprile 2004, causa C‑77/01, EDM).
La vendita, da parte di un’impresa di costruzioni, di immobili da essa costruiti per conto proprio non può essere qualificata come “operazione immobiliare accessoria” ai sensi della citata disposizione, poiché tale attività costituisce il prolungamento diretto, permanente e necessario dell’attività imponibile dell’impresa suddetta. In virtù di tale circostanza, non occorre valutare in concreto in quale misura la menzionata attività di vendita, isolatamente considerata, implichi un uso di beni e servizi per i quali l’Iva è dovuta (Corte di giustizia, 29 ottobre 2009, c‑174/08).
La determinazione dei metodi e dei criteri di ripartizione dei pro-rata dell’Iva pagata a monte tra attività economiche e attività non economiche ai sensi della sesta direttiva rientra nel potere discrezionale degli Stati membri che, nell’esercizio di tale potere, devono tener conto dello scopo e dell’economia di tale direttiva e, a tale titolo, prevedere un metodo di calcolo che rifletta oggettivamente la quota di imputazione reale delle spese a monte a ciascuna di queste due attività (Corte di giustizia, sentenza 13 marzo 2008, C‑437/06).
Secondo la giurisprudenza nazionale, il diritto alla detrazione, in capo al soggetto passivo di operazioni per le quali è debitore dell’Iva, è riconosciuto “nella misura in cui beni e servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta”; ai fini della detrazione non è sufficiente che le dette operazioni attengano all’oggetto dell’impresa, essendo necessario che esse siano, a loro volta, assoggettabili all’Iva. È proprio in tale prospettiva, pertanto, che il Dpr 633/1972 impone di tenere conto delle operazioni esenti al fine della determinazione della percentuale di indetraibilità (pro-rata), solo quando formino oggetto “dell’attività propria dell’impresa”, escludendo – di conseguenza – tutte quelle attività che, seppure previste nell’atto costitutivo, siano eseguite solo in modo occasionale o accessorio, per un migliore svolgimento dell’attività propria di impresa (Cassazione, sentenze 5970/2014, 17969/2013, 10136/2009, 11085/2008).
Limitazioni al diritto di detrazione
L’articolo 176 della direttiva Iva stabilisce che il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione, stabilisce le spese che non danno diritto a detrazione dell’Iva. In ogni caso, saranno escluse dal diritto a detrazione le spese non aventi un carattere strettamente professionale, quali le spese suntuarie, di divertimento o di rappresentanza. Fino all’entrata in vigore delle disposizioni di cui al primo comma, gli Stati membri possono mantenere tutte le esclusioni previste dalla loro legislazione nazionale al 1° gennaio 1979 o, per gli Stati membri che hanno aderito alla Comunità dopo tale data, alla data della loro adesione. Il successivo articolo 177 della direttiva Iva dispone che, previa consultazione del comitato Iva, ogni Stato membro può, per motivi congiunturali, escludere totalmente o in parte dal regime delle detrazioni la totalità o parte dei beni di investimento o altri beni. Per mantenere condizioni di concorrenza identiche, gli Stati membri possono, anziché rifiutare la detrazione, assoggettare all’imposta i beni fabbricati dallo stesso soggetto passivo o acquistati dal medesimo nella Comunità, oppure importati, in modo che questa imposizione non superi l’ammontare dell’Iva che graverebbe sull’acquisto di beni analoghi.
Nell’ordinamento nazionale sussistono alcune fattispecie di esclusione o riduzione della detrazione per alcuni beni e servizi. Su tali limitazioni la recente giurisprudenza di legittimità si è pronunciata. In particolare, la Corte di cassazione si è pronunciata sulla previsione di cui al Dpr 633/1972, articolo 19-bis, lettera h), secondo cui non è ammessa in detrazione l’imposta relativa alle spese di rappresentanza, come definite ai fini delle imposte sul reddito, tranne quelle sostenute per l’acquisto di beni di costo unitario non superiore a 25,82 euro. Il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e di pubblicità va individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi, atteso che costituiscono spese di rappresentanza i costi sostenuti per accrescere il prestigio e l’immagine della società e per potenziarne le possibilità di sviluppo, senza dar luogo a una aspettativa di incremento delle vendite, mentre sono spese di pubblicità o propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque al fine diretto di incrementare le vendite, sicché è necessaria una rigorosa verifica in fatto della effettiva finalità delle spese (in tal senso, Cassazione, 16812/2014 e 11426/2015).
Con riguardo alla portata della limitazione di cui all’articolo 19-bis, lettera i), del Dpr 633/1972, concernente l’imposta relativa all’acquisto di fabbricati a destinazione abitativa, secondo la giurisprudenza di legittimità nazionale, il contribuente può portare in detrazione l’imposta assolta sulle spese di ristrutturazione dell’immobile destinato all’esercizio dell’attività d’impresa, sempreché che sia dimostrata l’inerenza e la strumentalità dell’operazione rispetto all’esercizio dell’impresa, sicché, ricorrendo le dette condizioni, è indifferente la natura dell’attività esercitata, così come, con diretto riferimento al caso di specie, è del pari inconferente, ove sia provata l’effettiva inerenza dell’operazione all’esercizio dell’attività imprenditoriale, il concreto esercizio dell’impresa, potendo la detrazione dell’imposta spettare anche nel caso di assenza di operazioni attive, con riguardo alle attività meramente preparatorie, quali la ristrutturazione di un immobile, purchè finalizzate alla costituzione delle condizioni d’inizio effettivo dell’attività tipica (Cassazione, sentenze 23036/2015 e 7344/2011).
La limitazione alla detraibilità dell’imposta per le spese di ristrutturazione degli immobili destinati a uso abitativo, di cui al Dpr 633/1972, articolo 19-bis1, comma 1, lettera i), la quale trova giustificazione solo laddove il consumatore finale benefici direttamente di tali lavori in quanto utilizzatore “in proprio” del bene immobile, a fini esclusivamente abitativi, ovvero laddove l’immobile ristrutturato venga destinato a utilizzo promiscuo del soggetto passivo, poichè – salva l’ipotesi di imprese che abbiano quale attività esclusiva o principale la costruzione degli immobili – in questi casi viene meno lo stesso presupposto su cui si fonda il diritto alla detrazione d’imposta, in attuazione del principio di neutralità fiscale, e cioè l’impiego strumentale del bene immobile nell’esercizio dell’attività economica soggetta a Iva (Cassazione, 11395/2015). Gli immobili abitativi, utilizzati dal soggetto passivo nell’ambito di un’attività di tipo ricettivo (gestione di case vacanze, affitto camere, eccetera) che comporti l’effettuazione di prestazioni di servizi imponibili a Iva, devono essere trattati, a prescindere dalla classificazione catastale, alla stregua dei fabbricati strumentali per natura (Cassazione, 3458/2014). La normativa nazionale previgente, che denegava in parte la detrazione (e/o il rimborso) dell’Iva assolta sugli acquisti di telefoni cellulari anche quando effettuati nell’esercizio d’impresa, deve ritenersi illegittima, in quanto introdotta “post” entrata in vigore della sesta direttiva, non limitata nel tempo, e non preceduta dalla consultazione del Comitato Iva (Cassazione, 5958/2015).
Rettifica della detrazione
Secondo la giurisprudenza dell’Unione, le norme previste dalla direttiva Iva in materia di rettifica delle detrazioni mirano ad aumentare la precisione delle detrazioni al fine di assicurare la neutralità dell’Iva, di modo che le operazioni effettuate allo stadio precedente continuino a dar luogo al diritto di detrazione soltanto nei limiti in cui servono a fornire prestazioni soggette a una tale imposta. Con dette norme, la direttiva è quindi volta a istituire un rapporto stretto e diretto tra il diritto alla detrazione dell’Iva versata a monte e l’utilizzazione dei beni o dei servizi di cui trattasi per operazioni tassate a valle (sentenza del 15 dicembre 2005, Centralan Property, C‑63/04). La detrazione inizialmente effettuata viene rettificata se superiore o inferiore a quella che il soggetto d’imposta era legittimato a effettuare (Corte di giustizia, sentenza 10 ottobre 2013, causa c‑622/11).
Per quanto riguarda la nascita di un eventuale obbligo di rettifica di una detrazione dell’Iva effettuata a titolo di imposta assolta a monte, l’articolo 185, paragrafo 1, della direttiva Iva stabilisce il principio secondo il quale una tale rettifica ha luogo, in particolare, quando, successivamente alla dichiarazione dell’Iva, sono mutati gli elementi presi in considerazione per determinare l’importo della suddetta detrazione (Corte di giustizia, sentenza del 29 novembre 2012, C‑257/11, Gran Via Moineşti).
Di conseguenza, gli articoli 184 e 185, paragrafo 1, della direttiva 2006/112 possono trovare applicazione solo se una detrazione dell’Iva relativa a un’operazione imponibile è stata inizialmente operata, vale a dire solo se il soggetto passivo interessato ha prima beneficiato di un diritto a detrazione dell’Iva (Corte di giustizia, sentenza del 18 luglio 2013, causa c‑78/12). Per quanto attiene al sorgere dell’obbligo di rettifica della detrazione dell’Iva operata a monte, l’articolo 185, paragrafo 1, della direttiva prevede il principio secondo cui tale rettifica dev’essere operata, in particolare, quando modificazioni degli elementi presi in considerazione ai fini della determinazione dell’importo della detrazione medesima siano intervenuti successivamente alla dichiarazione dell’Iva (Corte di giustizia, sentenza 4 ottobre 2012, causa C–550/11, PIGI).
Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, in ordine al criterio di rettifica applicabile ai beni ammortizzabili nel passaggio dal regime a agevolato a quello ordinario, il criterio, dettato in via generale per i beni ammortizzabili dall’articolo 19-bis, n. 2, Dpr 633/1972 (calcolo per quinti per quanti sono gli anni mancanti al compimento del quinquennio), deve intendersi nel senso che si limita ad affermare che la possibilità di rettifica è condizionata al periodo quadriennale della entrata in funzione dei beni in questione.
Nell’affrontare tale problema, la Corte di cassazione ha avuto modo di precisare che la rettifica incide sull’ammontare dell’imposta dovuta nell’anno in cui si verifica la variazione della percentuale di detrazione e non in quello in cui è stata effettuata la detrazione. Ciò significa che, in presenza di due regimi diversi di calcolo della detrazione, il passaggio da un regime all’altro non comporta il ricalcolo delle detrazioni pregresse secondo le linee del nuovo sistema, ma l’applicazione del regime ordinario a tanti “quinti di imposta” quanti sono gli anni mancanti al compimento del quinquennio di utilizzazione dei beni stessi (Cassazione, 15471/2005).
La detrazione dell’imposta relativa all’acquisto di beni ammortizzabili – prevista dall’articolo 19-bisdel Dpr 633/1972 nel testo previgente alla riforma operata con il Dlgs 313/1997 – è soggetta a rettifica, in ciascuno dei quattro anni successivi, in caso di variazione della percentuale di detrazione superiore a dieci punti. In tal caso – prosegue la norma – “la rettifica si effettua aumentando o diminuendo l’imposta annuale in ragione di un quinto della differenza tra l’ammontare della detrazione operata e quello corrispondente all’ammontare di detrazione dell’anno di competenza”. La rettifica incide dunque sull’ammontare dell’imposta dovuta nell’anno in cui si verifica la variazione della percentuale di detrazione e non, in quello, precedente, in cui è stata effettuata la detrazione. Ne consegue che il credito d’imposta derivante dalla detrazione – nella specie chiesto a rimborso – e il debito conseguente alla rettifica si riferiscono ad annualità diverse, cosicché correttamente la Commissione tributaria regionale ne ha escluso la compensazione, in quanto non prevista, in tale ipotesi, nell’analitica regolamentazione delle poste creditorie detraibili, nella disciplina dell’Iva (Cassazione, sentenze 15471/2005 e 14579/2001).