recupero cassa integrazioneEmettere fatture false per pareggiare quelle divenute inesigibili non è il metodo giusto per rimettere le cose a posto con il fisco, si tratta di frode. La via corretta è un’altra.

 

Non è ammissibile ricorrere a un’azione criminosa per conseguire un risultato lecito per il quale l’ordinamento tributario mette a disposizione gli opportuni elementi correttivi. Non sono tollerate, pertanto, scorciatoie “ad hoc” al fine della tutela dei propri crediti civilistici e fiscali.

 

Questo è in sostanza quanto ha stabilito la Corte di cassazione penale, con la sentenza 12531 del 25 marzo 2015, a cui era stato sottoposto il caso di un contribuente condannato alla pena detentiva di un anno e otto mesi di reclusione, perché ritenuto responsabile del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, ai sensi dall’articolo 2 del Dlgs 74/2000.

 

In particolare, l’imputato, presidente e legale rappresentante di una società cooperativa a responsabilità limitata, aveva indicato nella dichiarazione annuale Iva elementi passivi fittizi per mezzo di fatture oggettivamente inesistenti.
Il presidente aveva, sì, ammesso di aver fatto ricorso a una condotta criminosa, ma, al tempo stesso, adduceva a proprio discapito di esser stato spinto dalla necessità di dover compensare il mancato introito di alcune operazione non onorate dalla propria clientela. Ciò evidenzierebbe la mancanza di volontà evasiva dell’imposta.

 

Avverso la sentenza della Corte di appello il contribuente ricorre in Cassazione, adducendo a propria difesa che i giudici di merito avrebbero ritenuto erroneamente consumato il reato di evasione fiscale col semplice utilizzo delle fatture oggettivamente inesistenti.

 

Mentre, secondo la tesi difensiva, il solo utilizzo della falsa fatturazione non sarebbe del tutto sufficiente per l’integrazione del reato, che necessita dell’effettiva evasione, anche dal punto di vista soggettivo, con l’intenzione di porre in essere la condotta criminosa al fine dell’evasione dell’imposta dovuta.

 

Inoltre, nel ricorso di legittimità è stata richiesta la cassazione della sentenza di merito nel punto in cui la Corte d’appello, nell’attuare il trattamento sanzionatorio e nel rideterminare la pena, aveva disconosciuto le circostanze attenuanti generiche concesse in prime cure.

 

L’articolo 6 del Dpr 633/1972 stabilisce che “le cessioni di beni si considerano effettuate nel momento della stipulazione se riguardano beni immobili e nel momento della consegna o spedizione se riguardano beni mobili” e, pertanto, la fattura deve essere emessa nel momento in cui viene effettuata l’operazione.

 

Il decreto disciplina, inoltre, i diversi modi in cui l’Iva diventa esigibile: per quanto concerne le prestazioni di servizi, le stesse si considerano effettuate al momento del pagamento del corrispettivo, mentre, per altri tipi di prestazioni, l’esigibilità dell’imposta avviene nel momento in cui è resa la prestazione; può accadere, invece, che l’imposta diventi esigibile in un momento successivo o con l’emissione della sola fattura, indipendentemente dal conseguimento dell’importo ivi evidenziato.

 

Nel caso concreto, chiarisce la Corte, il contribuente, nonostante avesse fornito l’anagrafica dei clienti insolventi, non aveva mai chiarito la tipologia delle prestazioni effettuate e, pertanto, allo stato dei fatti non risulterebbe essere possibile, per i giudici di legittimità, stabilire “se le operazioni rese avrebbero consentito l’emissione della fattura al momento della corresponsione del corrispettivo oppure no; è una questione di fatto oggi non più deducibile in fase di legittimità”.

 

La Corte di cassazione ricorda che, con l’articolo 26 del Dpr 633/72, è lo stesso ordinamento tributario a prevedere operazioni di variazioni dell’imponibile o dell’imposta, nel caso in cui avvengano eventi successivi al momento della fatturazione.

Infatti, l’articolo 23 obbliga il contribuente ad annotare, entro quindici giorni, le fatture emesse nell’apposito registro, nell’ordine della loro numerazione e con riferimento alla data della loro emissione.

 

Nel caso in cui la fattura sia stata emessa successivamente alla propria registrazione e subisca unadiminutio del suo ammontare, sia essa in toto o in parte, a seguito della dichiarazione di nullità o perché sia avvenuta la revoca oppure, come nel caso di specie, non sia stato percepito il pagamento della somma, anche parziale, o per altre cause (revoca, risoluzione o rescissione) o per l’applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente, il cedente del bene o il prestatore del servizio può portare in detrazione l’imposta corrispondente alla variazione, procedendo poi alla registrazione della fattura ai sensi dell’articolo 25 del Dpr 633/1972.

 

Alla luce di ciò, dunque, si evince chiaramente come il legislatore abbia previsto espressamente meccanismi di recupero di imposta nel caso in cui le stesse siano diventate inesigibili.

Ma attenzione, la normativa prevede che il soggetto che abbia emesso la fattura deve aver, altresì, esperito le dovute procedure esecutive a tutela del proprio credito che, nel caso di specie, non risultano essere prodotte dal contribuente, il quale non ha neppure messo in pratica le minime procedure monitorie, dissuasive nei confronti dei propri debitori.

 

L’aver creato fatture false al fine dell’abbattimento illecito dell’imposta dovuta viene visto dalla Corte di cassazione come doppiamente deplorevole, sia dal punto di vista del risultato incerto sia dal punto di vista propriamente penalistico, sempre in virtù del fatto che è proprio l’ordinamento a prevedere misure correttive nel caso in cui la clientela non onori quanto dovuto.
A nulla rileva il fatto che il contribuente fosse mosso non da intenti evasivi, ma dal fatto che non erano stati onorati i propri crediti. Infatti, ai sensi dell’articolo 1 del Dlgs 74/2000, l’imposta evasa viene determinata dalla differenza tra l’imposta dovuta e l’imposta dichiarata. Pertanto, secondo il Collegio, il ricorso alla falsa fatturazione ha come fine l’intenzione di non voler onorare l’imposta dovuta.
Conclude la Corte che “il dolo di evasione non necessariamente esaurisce lo scopo dell’azione criminosa, né necessariamente si deve identificare con esso, essendo necessario e sufficiente che si ponga anche solo in consapevole rapporto strumentale rispetto ad altri scopi che potranno pure avere rilevanza ad altri fini ma che non concorrono a tipizzare la fattispecie e a individuare il bene giuridico leso”.

 

Per quanto concerne il secondo punto del ricorso, concernente l’ipotesi di disconoscimento delle circostanze attenuanti generiche concesse in prime cure, il Collegio evidenzia come il giudice di appello avesse ridotto la pena e che, pertanto, il ricorso risulta essere anche in tal caso inammissibile, condannando alle spese processuali il contribuente.