reati-tributariAi fini dell’operatività dell’istituto del raddoppio dei termini (articoli 43 del Dpr 600/1973 e 57 del Dpr 633/1972), è ininfluente l’esercizio dell’azione penale da parte del Pm o l’eventuale sentenza di condanna. Il giudice di merito, per accertare che l’ufficio non abbia fatto un uso distorto dell’istituto de quo, deve verificare se il reato fiscale è astrattamente configurabile, essendo irrilevante, a tal fine, la mancata produzione della documentazione attestante la trasmissione della notizia di reato o la pendenza del processo penale. Questo il principio di diritto espresso dalla Cassazione con l’ordinanza n. 9725 del 12 maggio 2016.

 

Fatto

 

La vicenda è quella di una società, a cui l’ufficio aveva rettificato il reddito d’impresa, ai fini Irpeg, Irap e Iva, negando la deducibilità di costi, non inerenti o portati da fatture relative a operazioni inesistenti. Investita della questione, la Commissione tributaria regionale, nell’accogliere il gravame della società, annullava l’atto impositivo per decorso del termine di decadenza. In particolare, l’adita Commissione declarava la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dall’azione di accertamento, ai sensi del Dpr 600/1973, articolo 43, comma 3, ritendo che non ci fossero i presupposti per il raddoppio dei termini, pur in presenza di un reato tributario. L’Amministrazione non aveva prodotto copia della denuncia penale e di altra documentazione attestante la pendenza del processo penale; pertanto, i giudici di merito non erano stati posti nella condizione di valutare se ci fosse stato un uso distorto dell’istituto, “al solo fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento”. L’Agenzia delle Entrate interpone ricorso per cassazione, lamentando, per quanto qui d’interesse, la violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 43, commi 1 e 3, del Dpr 600/1973, e dell’articolo 57, commi 1 e 3, del Dpr 633/1972.

 

Decisione – ulteriori osservazioni

 

I giudici hanno condiviso l’assunto erariale e, per l’effetto, hanno cassato la sentenza impugnata con rinvio. In particolare, la Corte, nell’escludere l’obbligo di denuncia penale ai fini del raddoppio dei termini, ha richiamato la sentenza 247/2011 della Corte costituzionale che, investita della questione di legittimità del combinato disposto del Dpr 633/1972, articolo 57, comma 3, e del Dl 223/2006, articolo 37, comma 26, ha chiarito che “il raddoppio dei termini consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia o dall’inizio dell’azione penale”.

 

A giudizio della Corte, inoltre, l’obbligo di denuncia “sorge anche ove sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento resti riservato all’autorità giudiziaria penale”, posto che “la lettera della legge impedisce di interpretare le disposizioni denunciate nel senso che il raddoppio dei termini presuppone necessariamente un accertamento penale definitivo circa la sussistenza del reato”.

 

Ne inferisce che non assumono rilievo, ai fini dell’operatività del raddoppio dei termini:

 

 

  • l’effettiva presentazione della denuncia di reato tributario al pubblico ministero
  • l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, ai sensi dell’articolo 405 cpp, mediante la formulazione dell’imputazione
  • la successiva emanazione di una sentenza penale di condanna o di assoluzione da parte dell’autorità giudiziaria.

 

 

La stessa Cassazione (cfr da ultimo, sentenza 9974/2015) ha confermato che il raddoppio dei termini di accertamento scatta, in ogni caso, in presenza dell’obbligo di presentazione della notizia di reato, a prescindere dal fatto che poi essa sia stata effettivamente inoltrata all’autorità giudiziaria e, tanto più, dall’esito dell’eventuale procedimento penale instauratosi. Sussiste l’obbligo di presentazione della notitia criminis quando il pubblico ufficiale ravvisi nel fatto ilfumus del reato ovvero quando il fatto sia riconducibile a una fattispecie illecita, non essendo, però, necessaria la certezza o anche il dubbio circa l’esistenza del reato. È compito del giudice tributario vagliare la sussistenza degli elementi minimi richiesti dall’articolo 331 cpp per la presentazione della notizia di reato, negando l’operatività del raddoppio dei termini per l’accertamento fiscale, quando questi elementi siano carenti, evitando così che tale strumento legale si presti a iniziative di denunzia palesemente pretestuose o addirittura calunniose da parte del Fisco, al solo fine di rendere operativo il raddoppio dei termini per espletare gli accertamenti di competenza.

 

Muovendo da tali principi, ormai consolidati nella giurisprudenza di legittimità, la Corte, ha ritenuto che, ai fini del raddoppio dei termini per l’esercizio dell’azione accertatrice, non fosse necessaria l’azione penale, dovendo valutare in concreto l’astratta configurabilità di un’ipotesi di reato. In particolare, conclude la Corte, “Per impedire che il raddoppio sia adoperato in maniera distorta, ossia comunicando al P.M. notizie di reato manifestamente infondate, al solo fine di beneficiare del più ampio termine di decadenza”, il giudice di merito ha il compito di vigilare sull’osservanza degli elementi minimi richiesti dall’articolo 331 cpp per l’insorgere “dell’obbligo di denuncia e di negare l’applicazione del termine allungato in casi d’iniziative di denuncia palesemente pretestuose, se non addirittura calunniose ( art. 368 c.p.c. ), rivelatrici di un uso distorto dello strumento legale apprestato dall’art. 37”. Nel caso di specie, la Corte di merito si è limitata a rilevare l’omessa denuncia penale, senza verificare la sussistenza, in concreto, delle condizioni legittimanti l’eventuale raddoppio dei termini di decadenza per l’azione accertatrice (che, se sussistenti, avrebbero comportato la tempestività dell’atto impositivo).

 

Il legislatore, di recente, è intervenuto sulla materia con l’articolo 2, commi 1 e 2, del Dlgs 128/2015, stabilendo che il raddoppio non opera laddove la denuncia da parte dell’Amministrazione finanziaria, in cui è ricompresa la Guardia di finanza, sia presentata o trasmessa oltre la scadenza ordinaria dei termini di cui ai commi precedenti. Giova ricordare, altresì, che il legislatore, in sede di legge di stabilità 2016, quindi a pochi mesi di distanza dal precedente intervento, ha modificato ancora una volta la materia: da una parte, ha allungato i termini ordinari di accertamento, portandoli da 4 a 5 anni per le dichiarazioni presentate e da 5 a 7 anni per le omesse; dall’altra parte, ha cancellato la disciplina del raddoppio dei termini di accertamento in presenza di reati penali (commi 130 e 131 dell’articolo unico della legge 208/2015).

 

I nuovi termini di decadenza per l’accertamento, introdotti dalla Stabilità 2016, si applicano a partire dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2016. Per quanto riguarda i periodi d’imposta antecedenti al 2016, rimangono fermi i termini di decadenza per l’accertamento previgenti. In pratica, gli accertamenti relativi a dichiarazioni dei redditi e Iva, regolarmente presentate per l’anno d’imposta 2015, dovranno essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre 2020. Ne consegue che, per espressa volontà del legislatore, fino al periodo d’imposta 2015, continua ad applicarsi il raddoppio dei termini di accertamento, laddove siano astrattamente configurabili reati tributari, a condizione che la denuncia penale sia stata presentata dall’Amministrazione finanziaria entro la scadenza dei termini ordinari di accertamento.