Nel processo tributario è ammessa la motivazione che rinvia, in toto, a un altro provvedimento giudiziario, ma le ragioni della decisione devono essere chiare, univoche ed esaustive.
Non può dirsi “motivazione” la mera adesione acritica alla sentenza di primo grado da parte del giudice d’appello. Infatti, in base al principio generale per cui tutti i provvedimenti giurisdizionali vanno motivati, il giudice deve fornire, anche sinteticamente, le ragioni per cui condivide le statuizioni espresse in primo grado sussistendo, in caso contrario, la nullità della sentenza per carenza di motivazione. Così ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 27500 del 30 dicembre 2016.
Lo svolgimento del processo
L’Agenzia delle Entrate notificava un avviso d’accertamento ai fini delle imposte dirette nei confronti di una ditta individuale, esercente attività di costruzione. L’atto impositivo riguardava la contestazione di un maggior reddito imponibile a seguito della ripresa a tassazione di costi per la fornitura di calcestruzzo, relativi a fatture per operazioni inesistenti. I documenti fittizi erano emersi nel corso di una verifica fiscale condotta dalla Guardia di finanza nei confronti della società fornitrice del materiale della ditta accertata.
La Commissione tributaria provinciale, dinanzi a cui la ditta ha impugnato l’avviso di accertamento, ha accolto il ricorso. A seguito di appello da parte dell’Amministrazione finanziaria, anche la Ctr ha accolto le doglianze della società e respinto nel merito le motivazioni dell’ufficio. I giudici hanno avallato la tesi per cui è stato dato rilievo a un verbale della Polizia di Stato, in cui si constatava – a dimostrazione dell’effettiva realizzazione dell’operazione asseritamente inesistente – il superamento del “carico massimo consentito da parte di un autoveicolo di autotrasporto” e il fatto che l’impresa “aveva portato a termine i lavori di interconnessione viaria”.
L’Agenzia delle Entrate ha impugnato tale decisione in Cassazione, affidando il ricorso a quattro motivi. I giudici della suprema Corte, accogliendone il principale, hanno deciso per la cassazione della sentenza di secondo grado, con rinvio alla medesima Commissione tributaria regionale in diversa composizione.
Il diritto
Con il principale motivo di ricorso, in particolare, l’ufficio finanziario ha censurato la sentenza di secondo grado per assoluta mancanza di motivazione, perché la logica con cui la Commissione regionale ha condiviso le statuizioni del primo giudice è “apparente e sostanzialmente inesistente”. Infatti, a dire della parte pubblica, il giudice d’appello si è limitato a riprodurre in maniera semplicistica il testo della sentenza di primo grado, “senza nulla osservare circa le specifiche censure dell’ufficio e omettendo un proprio iter argomentativo”.
A parere dei giudici di legittimità, il motivo di ricorso dell’Agenzia delle Entrate è fondato perché il testo della sentenza impugnata è costellato di locuzioni con cui il giudice d’appello si è limitato a confermare la correttezza dell’operato dei giudici di prime cure, riprendendo per intero alcune espressioni della prima sentenza.
Come già affermato dalle sezioni unite della Cassazione (cfr sentenza 642/2015), nel processo tributario è ammessa la motivazione per relationem che rinvia, senza nulla aggiungervi, a un atto di parte o ad altro atto processuale o provvedimento giudiziario, sempreché “le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo”. Ciò posto esiste un principio, costituzionalmente garantito, per cui tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati (cfr articolo 111 della Costituzione), che implica l’obbligo da parte del giudice di fornire, anche in maniera sintetica, “le ragioni per cui le altrui tesi sono seguite, sussistendo in caso contrario la nullità della sentenza per carenza di motivazione”.
Nel caso in esame, i giudici di legittimità, confermando la tesi dell’ufficio finanziario, hanno rilevato come i numerosi rimandi e citazioni e le molteplici espressioni di condivisione presenti nella sentenza di secondo grado denotassero la mancanza dei necessari sviluppi argomentativi.
Nella pronuncia impugnata non solo è assente qualsiasi indicazione dell’atto di appello dell’ufficio, non riportato neanche sommariamente, ma manca la benché minima indicazione delle ragioni per cui si è ritenuto condividere la tesi dei primi giudici, “rendendosi impossibile apprezzare l’iter logico-giuridico posto a fondamento del rigetto dei motivi stessi”. Da qui, la conseguente cassazione della sentenza impugnata.