Come noto, l’articolo 53 del Dpr n. 633/1972 (“decreto Iva”) statuiva – al primo comma – he si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente esercita la sua attività, comprese le sedi secondarie, filiali, succursali, dipendenze, stabilimenti, negozi o depositi dell’impresa, né presso suoi rappresentanti, salvo che sia dimostrato che i beni stessi: a) sono stati utilizzati per la produzione, perduti o distrutti; b) sono stati consegnati a terzi in lavorazione, deposito o comodato o in dipendenza di contratti estimatori o di contratti di opera, appalto, trasporto, mandato, commissione o altro titolo non traslativo della proprietà.
Successivamente, tale disciplina è stata sostituita dal regolamento approvato col Dpr n. 441/1997, emanato in attuazione dell’articolo 3, comma 137, della legge n. 662/1996, che ha lasciato invariato lo schema precedente, disponendo all’articolo 2 alcune fattispecie probatorie precludenti l’efficacia delle presunzioni di cessioni o di acquisto in base ad alcuni atti fidefacenti, quali i verbali della Gdf o dell’ufficio finanziario, atti di altra Pa o attestazioni notarili.
La giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere – come da ultimo statuito nella pronuncia 31 marzo 2015, n. 6518 – che tali presunzioni di cessione e d’acquisto previste ai fini Iva siano annoverabili tra quelle legali relative di tipo “misto”, ossia quelle, “che a evidenti fini antielusivi, consentono la dimostrazione contraria da parte del contribuente unicamente entro i limiti di oggetto e di mezzi di prova ivi prefigurati”.
La questione oggetto dell’intervento della Cassazione n. 10927/2015 concerne la rilevanza di tale disciplina sulle presunzioni Iva anche ai fini delle imposte dirette nel senso di verificare, in primo luogo, se la limitazione legale alla prova contraria vale anche in un diverso ambito normativo e, in secondo luogo, se il conseguente legame inferenziale tra i fatti e le conclusioni assunte dal legislatore siano di per sé sole determinanti per accertamenti non Iva.
In merito alla prima questione, la sentenza del Supremo collegio in rassegna – pur avendo riconosciuto che in tale (limitato) senso la presunzione ha un’applicazione specifica concernente l’Iva – ritiene che tali presunzioni Iva hanno rilievo anche per l’accertamento redatto ai fini delle imposte dirette, rinvenendo la ragione giustificatrice nel principio “dell’unitarietà dell’ordinamento tributario”. Più precisamente, viene evidenziato che “Oltre tale limite, però, la normativa dettata in materia d’IVA introduce una presunzione che può avere rilievo quale fondamento dell’esistenza di fatti rilevanti anche in ordine all’accertamento di imposte diverse”, rinviando alla propria – ma invero non più recente decisione – della Suprema corte n. 15087/2000.
In ordine al profilo della sufficienza di tale presunzione per la fondatezza dell’accertamento ai fini di altri tributi, la sentenza della Corte di legittimità in commento riconosce che alcune precedenti pronunce (n. 13667/2001, n. 17210/2006) avevano preteso la necessità di ulteriori elementi proprio perché tale presunzione era specificamente dettata solamente per l’Iva.
Tale orientamento viene ora contrastato, reputando che la presunzione di cessione è comunque in sé un elemento rilevante per l’accertamento di quelle imposte, in quanto “Nella materia delle imposte dirette si impone semplicemente di considerare che la presunzione di cessione è in generale applicabile, ai sensi dell’art. 12, comma 2, delle disposizioni sulla legge in generale”. Viene riconosciuto che, non essendo applicabile lo speciale regime dettato per l’Iva limitativo della prova contraria alla presunzione legale, in tema di imposte dirette, e a differenza di quanto accade per l’Iva, al contribuente è consentito avversare la presunzione con ogni mezzo probatorio. Si augura un intervento chiarificatore delle sezioni unite della Corte regolatrice del diritto su tale questione.