L’Ufficio Studi di Confcommercio mette a punto un indicatore “equilibrato” con tre nuovi fattori, il primo dei quali e dato dalle emissioni di co2 . E il paese nel 2015 si scopre più povero di quasi 40 miliardi.
Anche il Pil deve adeguarsi alle esigenze dell’economia sostenibile. La misurazione della crescita di un sistema economico non può continuare a basarsi su criteri puramente quantitativi figli di un’idea di sviluppo come pura accumulazione. E lo stesso limite concettuale per cui, ancora una quindicina di anni fa, in casa Enel, tanto per fare un esempio nostrano, vedevano il tema del risparmio energetico come un nemico implacabile della crescita del fatturato. Poi per fortuna le cose sono cambiate. Nelle utility. Ora è invece tempo di riscrivere le formule che misurano l’economia ed è ancora più difficile.
Ci si prova da anni, a tutti i livelli (dall’Ocse al Wwf) e in tutto il mondo a trovare delle alternative al pil. Solo negli ultimi anni si sono incontrati il Gpi, Genuine Progress Indicatori il Better Life Index, messo a punto dall’Ocse; un italianissimo Bes, Benessere Equo e Sostenibile, sviluppato dall’Istat e dal Cnel; un Gnh, Gross National Happiness. Perfino la Repubblica popolare cinese aveva tempo fa ideato il Prodotto Interno Lordo Verde, un indice di sviluppo economico che tiene conto delle conseguenze ambientali dello sviluppo economico e di cui è forse effetto la nuova politica industriale e diplomatica di Pechino più attenta a temi come l’inquinamento delle città e il riscaldamento globale. Ma nessuno di questi è riuscito finora a scalzare il vecchio Pil.
Più successo potrebbe allora avere il test realizzato dall’Ufficio Studi di Confcommercio che tiene il Pil saldamente al centro dell’analisi macroecononiica, ma introduce dei correttivi: non dodici, come il Bes di Istat e Cnel che dovrebbe avere il battesimo del fuoco a metà febbraio prossimo con la sua prima adozione ufficiale in un documento governativo, ma solo tre per il suo “Pil equilibrato”. Sono: le emissioni di CO2, il numero di morti in incidenti stradali e sul lavoro e il numero di cittadini in stato di povertà assoluta. L’assunto di partenza è che questi tre fattori sono elementi di costo per la collettività e il loro peso va quindi detratto dal valore effettivo prodotto.
Confcommercio ha applicato la nuova formula alle sei maggiori economie Ue (noi, Germania, Uk, Spagna, Francia e Olanda) e ha ricalcolato la crescita cumulata nel decennio 2006-2015 e poi su base annua, la variazione 2014-2015. Nel decenni tutte le economie ne escono rafforzate perché in un arco di tempo così ampio i miglioramenti sono stati sensibili. Miglioramenti di pochi decimali per quasi tutti e risultato migliore per la Spagna e l’Italia: la prima ha quasi raddoppiato la crescita cumulata da un 0,5% a 1,2%. L’Italia ha ridotto di mezzo punto il suo calo, da meno 6,2 a meno 5,7%. Più significativo l’esito sul solo 2015: la crescita italiana si riduce dall’1% allo 0,5%. Mezzo punto, come la Spagna, mentre Francia e Germania devono tagliare la loro crescita di uno 0,3% e il solo Regno Unito resta invariato. Un risultato che dà indicazioni di rilievo perché ci dice che l’Italia ha visto sì una ripresa ma che è ancora indietro nell’imboccare con decisione la strada dell’economia sostenibile.
Abbiamo fatto ripartire insomma la vecchia economia, la crescita ha comportato un ritorno all’aumento delle emissioni di CO2 (mentre in Germania, Francia e Gran Bretagna sono scese comunque); un ritorno all’aumento dei morti sulle strade e sul lavoro (in misura doppia che nelle altre cinque economie) e a costo di una ulteriore compressione delle fasce meno abbienti delle popolazione, con il numero di “poveri assoluti” cresciuti in un anno di mezzo milione di individui, dai 4,1 milioni del 2014 a 4,6 milioni. Tutti dati che il vecchio Pil nascondeva, così come masconde il costo cornplessivo di questi fattori aggiuntivi, che tutti assieme, nel solo 2015, hanno pesato per ben 39,5 miliardi di euro.