La sanzione inflitta alla società in via amministrativa non preclude l’adozione del sequestro preventivo per equivalente nel procedimento penale a carico del legale rappresentante, che non ha versato l’Iva, non trovando applicazione il principio del ne bis in idem. A chiarirlo è la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 9224, depositata il 7 marzo scorso. Secondo la Corte suprema, infatti, ai fini della preclusione connessa, appunto, al principio del ne bis in idem, l’identità del fatto sussiste solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.
Il fatto
Il tribunale di Lanusei, in funzione di giudice del riesame, confermava con ordinanza il decreto di sequestro preventivo per equivalente emesso nei confronti di una società, il cui rappresentante legale era indagato per il reato di omesso versamento dell’Iva. Il giudizio approda in Cassazione su ricorso della società, che lamenta la violazione della norma penale per mancanza dell’elemento soggettivo, perché il mancato versamento dell’imposta era da imputare all’improvvisa e imprevedibile crisi di liquidità dell’azienda, nonché la violazione del principio del ne bis in idem, in quanto la società sarebbe stata assoggettata a una duplice sanzione per lo stesso fatto, avente identica natura afflittiva di tipo penale. Segnatamente: la sanzione amministrativa/tributaria per omesso versamento dell’imposta, oggetto di cartella di pagamento notificata dal concessionario, e quella penale, ossia il decreto di sequestro preventivo.
La decisione e ulteriori osservazioni
I giudici di legittimità hanno respinto il ricorso, ritenendo che ci fossero i presupposti di legge per l’applicazione della misura cautelare, quale il fumus criminis, in quanto la crisi di liquidità, paventata dalla società, non bastava a escludere la colpevolezza in materia di omesso versamento dell’Iva. In merito, invece, all’altra questione sull’operatività del principio del ne bis in idem, la Corte è stata categorica: la non applicazione dell’articolo 4 del protocollo n. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, laddove si afferma che “Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato”. Parimenti, per l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue: “Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”.
A giudizio della Corte, infatti, la disposizione innanzi citata, trova applicazione nei soli casi in cui del medesimo fatto sia chiamato a rispondere lo stesso autore, nel senso, cioè, che occorre anche una identità soggettiva passiva del destinatario della sanzione. Di contro, se dello stesso fatto rispondono, a titolo diverso, due diversi soggetti, come avvenuto nel caso di specie, dove la società è stata destinataria della sola sanzione tributaria, mentre il rappresentante legale è stato perseguito penalmente per la condotta contemplata dall’articolo 10-ter, Dlgs 74/2000, la norma Edu non può trovare applicazione. Senza contare, concludono i giudici, che non vi è stata alcuna sanzione di tipo definitivo, in quanto “il decreto di sequestro per equivalente è sì finalizzato alla confisca (che sotto il profilo ablatorio rappresenta una sanzione definitiva) ma abbisogna della conferma giudiziale della condanna penale per il reato presupposto”.
Il principio del ne bis in idem è previsto come diritto fondamentale solo in alcune costituzioni dei Paesi europei (ad esempio, la Germania), mentre in altri, come l’Italia, non troverebbe un referente costituzionale, almeno esplicito. Il principio in parola assume però, oggi, una valenza diversa, anche nell’ordinamento nazionale, a seguito di due importanti norme: l’una, già citata, vale a dire l’articolo 4 del protocollo n. 7, l’altra è data dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Cdfue). A seconda della fonte richiamata il principio assume efficacia cogente diversa. Se ritenuto, infatti, di matrice convenzionale (articolo 4),esso risulterà costituzionalizzato dall’articolo 117, comma 1, della Costituzione, attraverso l’argomento, ben noto, delle norme costituzionali interposte. Al contrario, se ritenuto di fonte eurounitaria, esso, essendo previsto nella Cdfue, che possiede lo stesso valore dei trattati, ha valenza costituzionale.
Tuttavia, il principio non è affatto sconosciuto all’ordinamento italiano, posto che l’articolo 649 del codice di procedura penale dispone che “1. l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345. 2. Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo”.
In proposito, la giurisprudenza italiana ha adottato una lettura di questa disposizione piuttosto restrittiva. Secondo la Cassazione, infatti, ai fini della preclusione connessa al principio del ne bis in idem, l’identità del fatto sussiste solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona. Un problema di sovrapposizione di sanzioni e, quindi, di ne bis in idem può porsi con riferimento ad alcuni illeciti tributari, e le rispettive infrazioni fiscali, e in particolare in relazione ai rapporti fra l’illecito amministrativo, di cui all’articolo 13, comma 1, Dlgs 471/1997, e gli illeciti penali, di cui agli articoli 10-bis e 10-ter, Dlgs 74/2000.
Sul punto, tuttavia, si sono pronunciate negativamente le Sezioni unite, secondo le quali “il reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, che si consuma con il mancato pagamento dell’imposta dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore ad euro cinquantamila, entro la scadenza del termine per il pagamento dell’acconto relativo al periodo di imposta dell’anno successivo, non si pone in rapporto di specialità ma di progressione illecita con l’art. 13, comma 1, D.Lgs. n. 471 del 1997, che punisce con la sanzione amministrativa l’omesso versamento periodico dell’imposta entro il mese successivo a quello di maturazione del debito mensile IVA, con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni” (cfr Cassazione, sezioni unite, 37424/ 2013).
Secondo la Cassazione, il debito tributario, ancorché gravato da sanzioni e interessi, non sarebbe in alcun modo assimilabile alla sanzione penale, a prescindere dall’entità dello stesso e, dunque, non potrebbe dare origine a una indebita duplicazione di procedimenti sostanzialmente penali. Del resto, gli articoli 19, 20 e 21 Dlgs 74/2000, disciplinano, in maniera chiara, i rapporti tra il sistema sanzionatorio amministrativo e i procedimenti penali e tributari. La medesima normativa prende espressamente in considerazione i rapporti tra pagamento del debito tributario e reato di natura tributaria, prevedendo, all’articolo 13 del Dlgs 74/2000, la speciale circostanza attenuante, per cui le pene previste per i delitti ivi contemplati sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell’articolo 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari relativi a fatti costituenti reato sono stati estinti mediante pagamento, anche a seguito delle procedure conciliative o di adesione all’accertamento.
La norma precisa, al secondo comma, che a tale fine, il pagamento deve riguardare anche le sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme tributarie. La ratio di questa impostazione è evidente: impedire che una scelta non fondata del “capo d’imputazione” possa lasciare spazi d’impunità. Diverso l’approccio in ambito comunitario, la Corte Edu, con la sentenza 4 marzo 2014, ha affermato che il principio del ne bis in idem sostanziale, previsto dall’articolo 4 del protocollo n. 7 della Convenzione, impedisce l’applicazione congiunta di una sanzione penale – e, ancor prima, l’avvio di un procedimento d’accertamento – e di una sanzione afflittiva, sebbene configurata come amministrativa dall’ordinamento nazionale, a carico dello stesso soggetto e per la medesima condotta materiale, per fatti, cioè, che possono essere considerati “sostanzialmente gli stessi”.
La controversia, in verità, non atteneva al diritto tributario. Le violazioni, per le quali erano state irrogate sanzione penale e sanzione amministrativa, riguardavano la legislazione raccolta nel Testo unico 24 febbraio 1998, n. 58, in materia di intermediazione finanziaria. Tuttavia, la Corte, con pronunce immediatamente successive a quella in epigrafe, ha affermato principi identici anche per la nostra materia. In particolare, in tre sentenze del 20 maggio 2014 (Glanz c. Finlandia n. 37394/11; Häkkä c. Finlandia n. 758/11; Nykänen c. Finlandia n. 11828/11), i giudici di Strasburgo si sono occupati di violazioni previste dalla legge finlandese relative alle imposte sui redditi, sanzionate, al contempo, in via amministrativa e con pena criminale, giacché costituenti reato di frode.
La sentenza in rassegna sembra confermare l’operatività del principio de quo laddove ci sia il rischio di sovrapposizione tra la sanzione penale e quella amministrativa/fiscale, sempre che sussista identità del fatto storico, sotto il profilo oggettivo e quello soggettivo; circostanza questa non riscontrabile laddove l’illecito tributario, con ripercussioni in ambito penale, sia stato operato da una società, visto il principio di personale responsabilità penale e visto l’articolo 7, Dl 269/2003, a norma del quale, le sanzioni amministrative, relative al rapporto fiscale proprio delle società aventi personalità giuridica, restano a carico di quest’ultime e non della persona fisica che le rappresenta legalmente.