La Corte di cassazione, con sentenza n. 23954 del 4 giugno 2015, ha statuito che “È pienamente corrispondente a logica il criterio che un bene non può costituire garanzia al di là del proprio valore. Pertanto se è perfettamente concepibile che un finanziamento possa essere chiesto, oltre che per l’acquisto di un immobile, anche per le ulteriori spese, certamente a fronte del finanziamento dovranno esservi ulteriori garanzie, quali fideiussioni o altre”.
Evoluzione processuale della vicenda
Con sentenza del 18 luglio 2012, il Tribunale giudicava il ricorrente colpevole del reato previsto dall’articolo 4, Dlgs 74/2000, perché, in qualità di amministratore, al fine di evadere le imposte, indicava nella dichiarazione dei redditi, relativa agli anni d’imposta 2004, 2005 e 2006, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello reale. Nel caso di specie, la società che alienava appartamenti conveniva, con gli acquirenti degli immobili, l’indicazione nell’atto di un prezzo inferiore a quello realmente corrisposto.
L’amministratore ricorreva avverso la sentenza del Tribunale. Ma la Corte di appello di Roma, con sentenza del 16 giugno 2014, confermava la decisione del Tribunale. Alla condanna conseguivano le pene accessorie dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria e l’interdizione perpetua dall’ufficio di componente di Commissione tributaria.
Contro il provvedimento, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, tra gli altri, per i seguenti motivi:
- erronea applicazione della legge; mancanza di motivazione ex articolo 606 cpc, lettera e), perché la Corte di appello si sarebbe limitata a confermare la sentenza di primo grado senza esprimersi sui singoli motivi di appello
- la sentenza avrebbe dichiarato l’inderogabilità del disposto previsto dall’articolo 38 del Dlgs 385/1993 (Tub), ritenendo che la somma erogata a titolo di mutuo non possa essere superiore al valore dell’immobile
- le pene accessorie non potrebbero avere una durata superiore a quella della pena principale.
Pronuncia della Cassazione
Quanto al primo motivo, la Corte di cassazione, investita della questione, ha dichiarato il ricorso inammissibile, poiché fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, valutando esauriente la motivazione della sentenza impugnata.
Circa la doglianza del ricorrente in merito all’ammontare del mutuo concesso agli acquirenti, che determinerebbe una rideterminazione del reale prezzo del trasferimento in aumento rispetto al dichiarato, a giudizio della suprema Corte, “è pienamente corrispondente a logica il criterio che un bene non può costituire garanzia al di là del proprio valore. Pertanto se è perfettamente concepibile che un finanziamento possa essere chiesto oltre che per l’acquisto di un immobile, anche per le ulteriori spese, che siano per l’acquisto, la ristrutturazione o altro, certamente a fronte del finanziamento dovranno esservi ulteriori garanzie, quali fideiussioni o altre, che, nel caso di specie, non risultano mai essere state prestate”.
Pertanto, in riferimento alla presenza di ricavi in nero, secondo i giudici di legittimità, la Corte d’appello ha ben operato. È stato, infatti, correttamente evidenziato come l’ammontare massimo dei finanziamenti di credito fondiario non possa superare l’80% del valore del bene ipotecato, valore che può essere aumentato fino al 100% solo laddove siano prestate garanzie integrative rappresentate da fideiussioni bancarie e assicurative o da altre idonee garanzie previste dalla banca.
La Corte d’appello ha comunque valutato ispirandosi alla logica e alla comune esperienza, secondo cui l’erogazione di una somma sensibilmente superiore al valore dell’immobile, se anche fosse possibile, priverebbe la banca di adeguata garanzia nel caso in cui il credito entrasse in sofferenza.
Da qui, l’avallo del ragionamento della Guardia di finanza, secondo cui il reale corrispettivo pagato dagli acquirenti nelle compravendite degli immobili ceduti dalla società, rappresentata dall’imputato, doveva essere determinato in misura almeno uguale all’entità del mutuo erogato (valore da ritenersi determinato per difetto, posto che dagli atti non era emersa alcuna presentazione di garanzie aggiuntive tali da consentire l’erogazione al 100% del valore dell’immobile).
A fronte di questo, la difesa non ha saputo spiegare “per quale motivo un imprenditore dovrebbe vendere degli immobili per una somma inferiore alla metà del loro reale valore”.
Inoltre, il convincimento del giudice di merito è stato determinato anche da altre circostanze probatorie, come il finanziamento della società, da parte dell’imputato e della moglie, indice di una rilevante disponibilità di liquidità non altrimenti giustificata.
L’irrisorietà del reddito Irpef dichiarato dai coniugi, per gli anni in contestazione, è comunque non compatibile con i 398mila euro conferiti dai soci per i medesimi anni.
In sede penale, il valore dei mutui erogati dalla banca agli acquirenti degli immobili e le incongruenze emergenti dalle dichiarazioni fiscali dell’imprenditore sono elementi che giustificano la condanna per il reato di dichiarazione infedele, con applicazione delle pene accessorie, anche per una durata superiore alla pena principale inflitta.
Per quanto riguarda la quantificazione delle pene accessorie irrogate, la Cassazione respinge ogni doglianza di parte ricorrente, che deduce la loro illegalità solo perché quantificate in misura superiore alla pena principale.
La parte ricorrente aveva invocato l’applicabilità dell’articolo 37 del codice penale, secondo cui: “Quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato. Tuttavia, in nessun caso essa può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria”. Mentre, secondo i Giudici supremi, nel caso di specie, si applica l’articolo 12 del Dlgs 74/2000.
La Corte suprema, a sezioni unite, con sentenza 6240/2014, aveva affermato che “sono riconducibili al novero delle pene accessorie, la cui durata non sia espressamente determinata dalla legge penale, quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale, ovvero uno soltanto dei suddetti limiti, con la conseguenza che la loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell’art. 37 c.p., a quella della pena principale inflitta”.
La sentenza non risolve il contrasto giurisprudenziale esistente, ma certamente consente di trarre un ulteriore principio interpretativo, per cui “può parlarsi di pena ‘espressamente determinata’ solo quando il legislatore fissi in concreto la durata, mentre in tutti gli altri casi (sia che venga indicato il minimo e il massimo, ovvero il solo minimo o il solo massimo), trova applicazione l’art. 37 c.p. e quindi la pena accessoria va determinata con riferimento a quella principale inflitta”.
Pertanto, ove il legislatore abbia indicato i limiti minimi e massimi delle pene, queste non possono essere ricondotte alle pene accessorie a durata non espressamente prevista.
Non può, dunque, trovare spazio, a giudizio della suprema Corte, un’interpretazione della norma che, sostanzialmente, riduca la portata applicativa dell’articolo 12, Dlgs 74/2000, norma peraltro introdotta nella consapevole vigenza da parte del legislatore dell’esistenza dell’articolo 37 cp, individuando solo dei limiti, minimo e massimo, della pena accessoria da irrogare, soglie al di sopra o al di sotto delle quali non si potrebbe andare qualora la pena principale irrogata fosse al di sotto o al di sopra delle stesse.
Il conflitto apparente tra l’articolo 12 e l’articolo 37 cp deve essere risolto, nel caso di specie, a favore dell’articolo 12, norma di dettaglio che espressamente prevede la durata delle pene accessorie.