I rimborsi spese di accesso, corrisposti ai medici specialisti ambulatoriali, per svolgere l’incarico presso ambulatori ubicati in un comune diverso da quello di residenza, non sono assimilabili a quelli erogati dai datori di lavoro ai dipendenti in trasferta. Quindi, afferma la risoluzione n. 106/E del 21 dicembre 2015, sono da assoggettare a tassazione.
Con tale documento, l’Agenzia delle Entrate è tornata a occuparsi della trasferta del lavoratore, ribadendo che, con tale istituto, è disciplinato, in ambito fiscale, lo spostamento del dipendente dalla propria sede di lavoro al luogo di missione/trasferta, cui è tenuto a recarsi su incarico e per esclusivo interesse del datore di lavoro. Pertanto, solo per tali ipotesi è possibile applicare il regime fiscale di favore previsto dall’articolo 51, comma 5, del Tuir, in ragione del quale non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente i rimborsi delle spese di viaggio e di trasporto corrisposti dal datore di lavoro al proprio dipendente, per ristorarlo dei costi sostenuti per recarsi al luogo di missione, ubicato al di fuori del territorio comunale in cui si trova la sede di lavoro.
Conseguentemente, non è da considerarsi trasferta lo spostamento del dipendente dalla propria residenza alla sede di lavoro che avviene al di fuori dell’orario lavorativo e, comunque, a partire da un luogo, qual è l’abitazione, scelto dal dipendente.
A ulteriore conforto di tale assunto, l’Agenzia ricorda che, per il tragitto casa-lavoro, il legislatore ha previsto, con la lettera d) del comma 2 del citato articolo 51, la non imponibilità delle prestazioni di servizi di trasporto collettivo, organizzate dal datore di lavoro e rivolto alla generalità o a categorie di dipendenti (ad esempio, servizio di navetta aziendale).
Pertanto, laddove il dipendente dovesse considerarsi in trasferta anche in riferimento a tale ultimo spostamento, la lettera d) citata sarebbe inutiliter data. In ragione di tali considerazioni, sono da considerare imponibili i “rimborsi spese di accesso”, corrisposti ai medici specialisti ambulatoriali allorquando svolgano i loro compiti in un comune diverso da quello in cui risiedono. Per tali ipotesi, infatti, l’articolo 46 dell’Accordo collettivo nazionale del 29 luglio 2009 prevede, tra l’altro, che “1. Per incarichi svolti in Comune diverso da quello di residenza, purché entrambi siano compresi nello stesso àmbito zonale, viene corrisposto, per ogni accesso, un rimborso spese nella misura di L. 533 per chilometro a decorrere dal 1° gennaio 2000… 3. Il rimborso non compete nell’ipotesi che lo specialista abbia un recapito professionale nel Comune sede del presidio presso il quale svolge l’incarico …”.
L’occasione che ha portato l’Agenzia delle Entrate a confermare il proprio orientamento interpretativo, peraltro già espresso con la risoluzione 171/2000, è stata l’ordinanza della Corte di cassazione 6793/2015, che ha attribuito natura risarcitoria, con conseguente non imponibilità, ai rimborsi spese erogati ai medici ambulatoriali de quo per compensare il disagio economico sopportato per lo svolgimento della propria attività lavorativa in un comune diverso da quello di residenza.
Invero, la Cassazione, con la citata ordinanza, ha nuovamente messo in discussione uno dei principi cardine del reddito di lavoro dipendente, qual è il principio di onnicomprensività, che governa la determinazione di tale tipologia reddituale. In applicazione di tale principio, infatti, tutte le somme e i valori che sono percepiti in ragione dellostatus di lavoratore dipendente costituiscono reddito imponibile per il percipiente. Ciò comporta che sono da ricondurre nell’alveo dei redditi di lavoro dipendente anche quegli emolumenti, in denaro o in natura, provenienti da un terzo soggetto estraneo al rapporto di lavoro, nonché quelli erogati sotto forma di erogazioni liberali. La ratio sottesa al principio è da ricercarsi nella circostanza che tali “utilità” non avrebbero ragion d’essere, cioè non sarebbero state percepite se il soggetto non fosse lavoratore dipendente ovvero non fosse parte del rapporto di lavoro che ha dato input all’erogazione.
L’Amministrazione finanziaria, con diversi documenti di prassi, ha più volte ribadito che, in generale, in tale ambito di imponibilità sono da ricomprendere anche le somme corrisposte dal datore di lavoro ai dipendenti a titolo di rimborso spese, salve le ipotesi previste in caso di trasferta/missione o trasferimento oppure quelle in cui il dipendente abbia sostenuto le spese in nome e per conto del datore di lavoro (ad esempio, per snellezza operativa, come l’acquisto di beni strumentali di piccolo valore, quali la carta della fotocopia o della stampante, le pile della calcolatrice, eccetera – circolare 326/1997) ovvero per esclusivo interesse del datore di lavoro (ad esempio, telelavoro – risoluzione 357/2007).
Le ragioni di tale orientamento interpretativo risiedono nella presenza, nel nostro ordinamento tributario, di una apposita detrazione d’imposta riconosciuta ai lavoratori dipendenti dall’articolo 13 del Tuir. Tale “sconto” sull’Irpef dovuta è volto, appunto, a ristorare il lavoratore di quelle spese che è tenuto a sostenere per svolgere la prestazione lavorativa (ad esempio, le spese per raggiungere il posto di lavoro nell’ipotesi in cui il datore di lavoro non fornisca un servizio di trasporto collettivo oppure le spese per un abbigliamento decoroso).
Con l’ordinanza in esame, invece, la Cassazione, discostandosi dalla consolidata linea interpretativa dell’Amministrazione finanziaria, hanno dichiarato la non imponibilità del “rimborso spese per accesso” riconosciuto dall’articolo 46 dell’Acn ai medici specialisti ambulatoriali convenzionati quando svolgono l’incarico in un Comune diverso da quello di residenza. Le ragioni che hanno portato i giudici supremi a disconoscere il carattere reddituale di tali rimborsi spese sono da ricercarsi nella circostanza che, a loro avviso, “… non ogni somma corrisposta in dipendenza del rapporto di lavoro deve considerarsi di natura retributiva, e perciò assoggettabile, ai sensi tanto dell’art.48 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, che dell’art. 48 del vigente t.u.i.r. del 1986, a ritenuta IRPEF, salve le eccezioni dagli stessi articoli previste. Assumono infatti funzione risarcitoria, e non retribuiva, le somme corrisposte al dipendente in relazione all’attribuzione di incarichi che comportino spese superiori a quelle rientranti nella normalità della prestazione lavorativa, e quindi tali da rendere l’incarico in questione depauperativo rispetto alla posizione dei dipendenti che percepiscano pari retribuzione in relazione ad incombenze diverse, non potendosi ravvisare alcuna ragione ostativa all’applicazione del principio nella modalità del rimborso – di tipo forfettario anziché a pie’ di lista -, quando le prestazioni fuori sede siano state dal dipendente effettivamente rese..”.
Come detto, non è la prima volta che la giurisprudenza mette in discussione il principio di onnicomprensività. Si pensi alle considerazioni poste a base della non imponibilità del “premio salvezza” erogato ai giocatori di una squadra di calcio, nell’ipotesi in cui tale elargizione risponda a puro spirito di liberalità e non all’assolvimento di un obbligo contrattuale (Cassazione, 4722/2008); oppure quando ha attribuito, come nel caso in esame, funzione risarcitoria al rimborso spese corrisposto agli ispettori del ministero del Lavoro in occasione di ispezioni presso cooperative (sentenze 5081/1999, 9107/2002 e 21517/2006).
Invero, la non perfetta armonizzazione tra l’orientamento giurisprudenziale e la prassi amministrativa fiscale, a parere di chi scrive, è riscontrabile anche quando i giudici di piazza Cavour hanno stabilito (sentenze 239/2006, 18584/2008 e 1464/2012) che la restituzione delle somme al soggetto erogatore debba avvenire, da parte del lavoratore, al netto delle ritenute Irpef subìte, svuotando, di tal guisa, la portata dell’articolo 10, comma 1, lettera d-bis), del Tuir, che ricomprende tra gli oneri deducibili “le somme restituite al soggetto erogatore se assoggettate a tassazione in anni precedenti…”.
In relazione a tale ultima ipotesi, infatti, l’Amministrazione finanziaria, in più occasioni (circolare 326/1997, risoluzioni 110/2005 e 71/2008), ha avuto modo di precisare che la presenza di un tale onere è volta a risolvere il problema del rimborso delle imposte pagate su somme percepite e assoggettate a tassazione secondo il criterio di cassa e poi restituite al soggetto erogatore. Una restituzione al netto delle imposte, come sostenuto dai giudici di legittimità, svuoterebbe di significato la previsione legislativa da ultimo citata che, modificata dalla legge di stabilità per il 2014, attende l’emissione di un apposito decreto di attuazione, in corso di emanazione.
Invero, in ambito fiscale, le norme e i principi che disciplinano la determinazione del reddito imponibile, il più delle volte, risponde a logiche poco comprensibili al cittadino comune, che giustamente può chiedersi perché un reddito deve essere tassato anche se non è stato percepito (principio di competenza) oppure perché nell’importo del compenso debba essere incluso il rimborso spese (determinazione del reddito di lavoro autonomo) o perché il rimborso spese, anche se documentato, debba essere tassato (ad esempio, il rimborso del biglietto dell’autobus utilizzato per recarsi dalla propria residenza al luogo di lavoro). La risposta a queste domande è da ricercarsi nell’ambito in cui opera il legislatore fiscale e, soprattutto, nella finalità da questi perseguita che, com’è intuibile, è quella di garantire gettito all’erario, anche sotto forma di anticipazione del quantum debeatur.
Ciò considerato, un consolidamento della giurisprudenza della Corte suprema in relazione alla natura del rimborso spese riconosciuto ai medici in esame non farebbe che amplificare la disparità di trattamento che, a parere di chi scrive, è presente nell’articolo 46 dell’Acn in esame. Con tale disposizione, infatti, il legislatore civile parte dall’assunto che il medico specialista, che risieda in un comune diverso da quello in cui è ubicato il presidio di competenza, sopporti necessariamente un disagio maggiore, in termini di distanza da percorrere e, conseguentemente, di maggiori spese da sostenere, rispetto a un suo collega che invece risiede nel medesimo comune del presidio ove è tenuto a svolgere l’attività lavorativa. Se nei piccoli comuni questo ragionamento di principio può condividersi, non altrettanto è pacifico nei comuni più grandi o nelle città metropolitane, dove la distanza percorsa per il tragitto casa-lavoro non sempre è maggiore se il luogo di residenza è fuori comune.
In ragione di tali ultime considerazioni, quindi, a parità di tragitto percorso, i medici “non residenti”, oltre a ricevere una maggiore retribuzione, godranno anche di un regime fiscale più favorevole, considerato che, per raggiungere il luogo di lavoro dalla propria residenza, ai medici “residenti” sono escluse da imposizione le sole “prestazioni di servizi di trasporto collettivo” organizzate dal datore di lavoro per la generalità o categorie di dipendenti e non anche i rimborsi chilometrici.