L’avviso di accertamento durante le indagini bancarie è legittimo anche se al contribuente non viene esibito il provvedimento che dà il via libera all’attività di controllo finanziario sui conti correnti.
L’accertamento fondato sulle indagini bancarie è legittimo anche se la relativa autorizzazione non è esibita al contribuente, trattandosi di un atto privo di rilevanza esterna, avente natura non provvedimentale, con funzione meramente organizzativa. È quanto stabilito dalla Ctr di Trento con la sentenza n. 127, depositata il 19 dicembre 2016.
La controversia
La controversia trae origine dai ricorsi avverso alcuni avvisi di accertamento notificati, relativamente agli anni 2005 e 2006, nei confronti di una Sas (ai fini delle imposte dirette e dell’Iva) nonché dei soci (a titolo di redditi da partecipazione). Nel caso di specie, il competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate aveva accertato ricavi non dichiarati dalla società, desunti dalla documentazione contabile e dai dati delle indagini svolte sui conti correnti bancari della medesima società e dei soci. Le indagini erano state estese a questi ultimi, trattandosi di una società di persone i cui due unici partecipanti risultavano legati da rapporto di coniugio. La sussistenza del rapporto familiare e la composizione ristretta del gruppo sociale giustificavano la riferibilità delle operazioni riscontrate sui conti correnti dei soci all’attività economica della società sottoposta a verifica.
Il giudizio di primo grado
I ricorrenti lamentavano l’illegittimità degli avvisi di accertamento derivante dalla mancata allegazione dell’atto di autorizzazione alle indagini finanziarie e dalla lesione del contraddittorio preventivo.
Ritualmente costituitasi in giudizio, l’Agenzia delle Entrate rilevava l’erroneità e l’infondatezza dei motivi di ricorso, richiamando il costante orientamento della giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui “affinché l’erario possa utilizzare il risultato di accertamenti bancari effettuati nei confronti del contribuente è necessario che tali accertamenti siano stati debitamente autorizzati, ma non anche che il provvedimento di autorizzazione (…) venga esibito al contribuente (Cass. 14023/07), precisandosi inoltre che tale provvedimento non richiede alcuna motivazione (Cass. 16874/09)” (cfr anche Corte di cassazione, ordinanza n. 10675/2010). In primo grado, la Commissione tributaria provinciale adita rigettava il ricorso, rilevando che l’allegazione dell’autorizzazione non costituisce un requisito di validità degli avvisi di accertamento fondati su indagini bancarie.
Il giudizio di appello
Avverso la sentenza, la società e i soci proponevano appello, lamentando, nuovamente, quale motivo di natura pregiudiziale, la mancata allegazione all’atto impositivo del provvedimento di autorizzazione alle indagini finanziare, dalla cui omissione facevano discendere l’illegittimità dell’avviso di accertamento (anche per la violazione del contraddittorio preventivo). A parere degli appellanti, il giudice di prime cure non aveva debitamente considerato la necessità dell’allegazione al fine di consentire alla società la verifica, oltre che dell’esistenza dell’autorizzazione alle indagini bancarie, anche dell’adeguatezza e della congruità della relativa motivazione, il cui vizio avrebbe inficiato la validità degli atti impositivi. Altresì, veniva dedotta la violazione dell’articolo 12, comma 7, legge 212/2000 (“Statuto del contribuente“), in quanto gli impugnati avvisi di accertamento erano stati emessi senza osservare il termine di sessanta giorni ivi previsto, da considerarsi applicabile anche alle “indagini a tavolino“, ed entro il quale i contribuenti avrebbero potuto presentare memorie, osservazioni o richieste.
Di contro, secondo la tesi difensiva sostenuta dall’ufficio dell’Agenzia, la pronuncia della Commissione provinciale era da ritenere corretta in quanto pienamente conforme al consolidato orientamento della Corte di cassazione, sancito nelle richiamate sentenze, con la conseguenza che i dedotti motivi di doglianza erano infondati.
La Commissione tributaria regionale confermava la sentenza di primo grado, rigettando il ricorso in appello. Nello specifico, con la pronuncia in rassegna, i giudici di secondo grado hanno fondato la propria decisione sul costante orientamento della suprema Corte (cfr Cassazione 16874/2009), in base al quale, affinché l’erario possa utilizzare il risultato di accertamenti bancari effettuati nei confronti del contribuente, è necessario che tali accertamenti siano stati debitamente autorizzati, ma non anche che il provvedimento di autorizzazione (la cui legittimità può essere fatta valere dinanzi al giudice tributario soltanto quando venga a inficiare il risultato fiscale del procedimento e, quindi, l’accertamento tributario) venga esibito al contribuente (cfr Cassazione 14023/07), precisandosi inoltre che tale provvedimento non richiede alcuna motivazione. Conseguentemente, l’avviso di accertamento è illegittimo soltanto nel caso in cui le indagini bancarie su cui esso si fonda vengano svolte (e le relative risultanze siano acquisite) in mancanza della prescritta autorizzazione e sempre che da tale mancanza derivi un concreto pregiudizio a danno del contribuente.
Nella decisione in commento, il giudice, condividendo quanto stabilito dalla sentenza di primo grado, ha motivato la propria decisione, affermando che “la materiale allegazione dell’autorizzazione per l’espletamento delle indagini finanziarie non costituisce un requisito di validità dell’avviso di accertamento“.
Ciò per due ordini di ragioni. In primo luogo, perché in relazione a essa la legge non dispone alcun obbligo di motivazione, a differenza di quanto invece stabilito per gli accessi e le perquisizioni domiciliari, dagli articoli 33, Dpr 600/1973 e 52, Dpr 633/1972. In secondo luogo, perché tale autorizzazione, nonostante il nomen iuris utilizzato, esplicando una funzione organizzativa, incidente esclusivamente sui rapporti tra uffici e avendo natura di atto meramente preparatorio, inserito nella fase di iniziativa del procedimento amministrativo di accertamento, non è qualificabile come provvedimento o atto impositivo, tipologie di atti per le quali, rispettivamente, l’articolo 3, comma 1, legge 241/1990 e l’articolo 7, legge 212/2000, prevedono l’obbligo di motivazione (cfr Cassazione 14026/2012 e, negli stessi termini, Cassazione 5849/2012). Pertanto, “la mancata esibizione all’interessato dell’autorizzazione alle indagini finanziarie non comporta l’illegittimità dell’avviso di accertamento fondato sulle risultanze delle movimentazioni bancarie acquisite dall’ufficio o dalla Guardia di Finanza“.
I giudici di appello, inoltre, hanno precisato che “i contribuenti hanno proposto l’impugnazione, in parte qua, per l’impossibilità di controllare se la motivazione della preventiva autorizzazione (identificata negli avvisi con i numeri di protocollo) fosse adeguata, non già per la materiale mancanza dell’atto, che sola potrebbe comportare l’illegittimità degli accertamenti impugnati (Cass. 16874/2009, cit.), sicché è irrilevante che l’Ufficio non l’abbia prodotta in giudizio“.
Alla stregua delle suddette ragioni, secondo i giudici di entrambi i gradi di giudizio, è da ritenersi del tutto irrilevante, ai fini della validità degli atti impositivi adottati dall’ufficio, la mancata allegazione all’avviso di accertamento dell’atto autorizzatorio in questione, non essendo stati dedotti dal contribuente altri pregiudizi rispetto all’unica contestazione concernente la motivazione di tale atto, rispetto al quale, peraltro, la legge non contempla alcun obbligo specifico.
Inoltre, il collegio di seconde cure, si è espresso a favore dell’Amministrazione finanziaria anche con riguardo all’altro profilo sollevato dagli appellanti e relativo all’asserita violazione dell’obbligo del contraddittorio preventivo e del divieto di emissione degli avvisi di accertamento prima che sia decorso il termine dei sessanta giorni dalla chiusura delle operazioni di verifica.
Sul punto, la Commissione tributaria di appello ha ritenuto infondata la censura, in ragione dei principi espressi dalla sentenza delle Sezioni unite della suprema Corte n. 24823/2015, secondo cui “differentemente dal diritto dell’Unione europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica previsione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi non armonizzati, l’obbligo dell’amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi armonizzati, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si rilevi non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede e al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto” (cfr. anche Cass. ordinanza 8019/16 e sent. 24199/2016).
Per cui, secondo i giudici di appello “alla luce di tale insegnamento, nel caso concreto la violazione dell’articolo 12, comma 7, dello Statuto del contribuente è da escludere de plano per gli atti impositivi concernenti l’lrap e i redditi da partecipazione dei soci, in quanto si tratta di tributi non armonizzati, accertati a seguito di una verifica c.d. a tavolino (la circostanza è pacifica), per i quali non vale un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale e non operano, nella specie, le ipotesi particolari in cui tale obbligo è specificamente sancito“.
Quanto all’Iva, che ha natura di tributo “armonizzato“, la violazione dell’obbligo del contraddittorio è parimenti da escludere, per i giudici, in quanto i contribuenti non hanno ritualmente assolto l’onere di esporre in concreto le ragioni che avrebbero potuto far valere qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato.
Da ciò scaturisce l’infondatezza del motivo teso a denunciare la nullità degli avvisi di accertamento per violazione dell’obbligo del preventivo contraddittorio, essendo quest’ultimo previsto dall’ordinamento tributario, in fase di accertamento, come mera facoltà e non come un dovere nei confronti del contribuente. E laddove esso sia vincolante perché il tributo è “armonizzato“, l’atto è invalido solo se l’assenza di contraddittorio ha danneggiato in concreto il contribuente e quest’ultimo, in giudizio, esponga i motivi specifici che avrebbe potuto dedurre in sede di confronto con l’amministrazione qualora il contraddittorio fosse stato attivato.