I versamenti e i prelevamenti operati sui conti correnti dell’imprenditore costituiscono la base per gli accertamenti fondati sulle risultanze delle indagini bancarie, se questi non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione del reddito imponibile e del volume d’affari o che tali operazioni attengono a fatti fiscalmente irrilevanti (articolo 32, comma 1, n. 2, del Dpr 600/1973, e articolo 51, comma 2, n. 2, del Dpr 633/1972). È principio consolidato in giurisprudenza che, in tema di accertamenti bancari, opera una presunzione legale relativa, per cui spetta al contribuente fornire una prova adeguata e rigorosa al fine di giustificare i movimenti finanziari riscontrati di sede di verifica (cfr Cassazione 25884/2013, 2895/2013 e 16650/2011).
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 4153 del 2 marzo 2016, torna a esprimersi sulla corretta applicazione della presunzione in materia di indagini bancarie, affermando il principio per cui il giudice di merito, laddove ritenga assolto dal contribuente l’onere probatorio a suo carico, ha l’obbligo di fornire una motivazione adeguata e non generica a supporto del proprio convincimento.
I fatti di causa
L’Agenzia delle Entrate notificava cinque avvisi di accertamento con cui, recependo le risultanze di indagini bancarie effettuate sui conti correnti riconducibili al contribuente, rettificava gli imponibili dichiarati per gli anni dal 1998 al 2002, determinando le imposte evase.
La Ctr, in accoglimento parziale dell’appello proposto dall’ufficio, confermava la sentenza di primo grado in relazione alle attività ricostruite in base alle movimentazioni bancarie. In particolare, i giudici di merito affermavano che l’ente impositore non avrebbe giustificato “… per ogni singolo accreditamento transitato sul conto la relazione esistente tra l’operazione eseguita dal sig. M. ed il movimento finanziario rilevato, non fornendo in tal modo elementi utili per individuare le entrate collegate ad effettivi incrementi reddituali”.
Ad avviso dei giudici, il contribuente aveva spiegato che “i movimenti avere del conto corrispondevano a restituzione di anticipazioni” eseguite per conto di aziende di suo interesse, tanto che dalla dinamica delle poste a debito e a credito registrate sul conto, nonché dall’equivalenza degli importi dare e avere, “si arguiva che si trattava di assegni emessi dal M. per effettuare pagamenti per conto di terzi che poi venivano rimborsati entro breve termine dai rispettivi percettori”.
Avverso tale pronuncia, l’ufficio ricorreva in Cassazione denunciando, tra l’altro, l’errore di diritto della Ctr laddove ha ritenuto che l’ente impositore dovesse giustificare l’idoneità di ogni singola movimentazione in entrata, nonché il vizio di motivazione della sentenza, non avendo i giudici motivato sufficientemente il proprio deliberato in ordine all’assolvimento dell’onere probatorio gravante sul contribuente.
La pronuncia della Corte
La Corte suprema accoglie i predetti motivi di censura, cassa la sentenza e rinvia la causa al giudice territoriale competente per il riesame. In primis, i giudici di legittimità hanno puntualizzato che la Ctr, stigmatizzando l’operato dell’ufficio per non aver fornito “… elementi utili per individuare le entrate collegate ad effettivi incrementi reddituali…”, è incorsa in un palese errore di diritto “… laddove mostra di disattendere il consolidato insegnamento di questa Corte secondo cui le norme citate sono fonte di una presunzione legale (2895/13;16650/11; 14675/06) a favore dell’erario e generano perciò un’inversione nell’onere della prova (18081/10; 4589/09; 7766/08), poiché compete al contribuente, nei confronti del quale la presunzione di redditività delle movimentazioni bancarie non giustificate è destinata ad operare, provare che esse non rappresentano attività imponibili”.
Affermano, inoltre, il vizio di motivazione nel ragionamento dei giudici d’appello in ordine alla illegittimità della ripresa, non avendo questi soppesato i contrari elementi di valutazione che, a fondamento della propria pretesa, l’Agenzia aveva rappresentato nel proprio ricorso, ossia che il contribuente “non aveva individuato alcuna provenienza delle somme” oggetto di verifica e che, pertanto, tali movimentazioni erano ingiustificate.
L’insufficienza della motivazione si desume anche dal fatto che i giudici di merito abbiano qualificato “tutti i prelievi come assegni, nonostante dal p.v. 24.2.2003 risultassero diverse modalità di prelievo” e abbiano dato “per scontata una equivalenza degli importi versati e prelevati limitata invece a due soli esempi su centinaia”. Pertanto, la Ctr, ignorando quanto eccepito dall’Agenzia e ritenendo che il ricorrente avesse assolto l’onere della prova dimostrando l’esistenza di rapporti d’affari con le aziende beneficiate, “… ha espresso un giudizio generico e non adeguatamente motivato che impone la cassazione della decisione da essa adottata”.
Considerazioni
In materia di indagini bancarie, costante giurisprudenza della Corte di legittimità (cfr 16650/2011, 13516/2008 e 14847/2008) sostiene che la prova contraria che il contribuente può fornire consiste nell’analitica dimostrazione dell’irrilevanza di ciascuna operazione finanziaria riscontrata, non potendo risultare sufficienti profili probatori generici.
Ferma restando, quindi, l’esistenza di una presunzione legale relativa a favore dell’ente impositore sul punto, l’Agenzia delle Entrate, con circolare 32/2006, chiarisce altresì che il contraddittorio preventivo, propedeutico all’emanazione dell’eventuale atto impositivo, ancorché non obbligatorio come sancito più volte dalla suprema Corte (4314/2015, 20420/2014, 19692/2011 e 10146/2010), costituisce un passaggio opportuno e rispondente a esigenze di economia processuale, potendo il contribuente fornire all’Amministrazione, già in una fase precontenziosa, la prova contraria al fine di giustificare le movimentazioni bancarie rilevate in sede istruttoria.