mutui 2Con l’ordinanza 22378 del 24 agosto 2017, la Corte di cassazione ha affermato che la discordanza tra l’importo del mutuo contratto dagli acquirenti e il prezzo di vendita dichiarato nel relativo atto pubblico, se unita ad altri elementi indiziari coi quali va raccordata, costituisce valida presunzione legittimante la determinazione induttiva dei ricavi in forza di presunzioni semplici ex articolo 39 del Dpr 600/1973.


 

Il tribunale di legittimità, inoltre, mediante un richiamo a precedente ordinanza (n. 5374/2017) emessa dalla medesima sezione, ha ribadito la necessità che il giudice tributario valuti la concordanza di tutti gli elementi indiziari offerti dall’amministrazione finanziaria per stabilire se la loro combinazione possa fornire una valida prova presuntiva e assurgere a “presunzione grave precisa e concordante” nell’accezione recata dal citato articolo 39.

 

Premessa

 

Nell’ambito delle contrattazioni tra imprese e privati, non è raro che gli acquisti di immobili avvengano mediante la contemporanea stipula di contratti di mutuo o di finanziamento e che, inoltre, nell’atto di vendita il valore del prestito risulti superiore al corrispettivo dichiarato dalle parti per l’immobile oggetto della cessione. Sul piano fiscale tale discordanza di valori (corrispettivo indicato nell’atto di vendita e importo finanziato), se congiunta ad altri elementi, viene normalmente valutata dall’amministrazione finanziaria quale prova presuntiva legittimante la determinazione induttiva del reddito dell’impresa immobiliare.

 

Il caso in trattazione

 

A seguito della impugnazione, da parte di una società operante nel settore immobiliare, di un avviso di accertamento emesso per l’anno d’imposta 2003, ai sensi dell’articolo 39 del Dpr 600/1973, per Irap, Irpeg e Iva, il giudice tributario di primo grado riconosceva che l’amministrazione finanziaria potesse procedere alla rettifica dei ricavi della contribuente, in forza del valore espresso nella perizia della banca, superiore al corrispettivo dichiarato in atto pubblico, in quanto suffragato da altri elementi (valori Omi e valori riportati in promesse di vendita).

 

Il giudice di appello riformava la sentenza della Ctp negando rilevanza di carattere indiziario-presuntivo ai singoli dati presi in considerazione dall’ufficio. Si asteneva, tuttavia, dallo svolgere un’attività di raccordo di tali elementi per verificare se essi, unitariamente considerati, potessero diversamente assumere una valenza presuntiva.

 

Il ricorso dell’Agenzia delle entrate

 

Ricorreva per cassazione l’ufficio, affidando l’impugnazione a un unico motivo di diritto riconducibile alla violazione e falsa applicazione degli articoli 39, comma 1, lettera d) del Dpr 600/1973, e 54 del Dpr 633/1972, in relazione all’articolo 2729 del codice civile. L’Agenzia contestava la sentenza della Ctr nella parte in cui negava valore indiziario agli elementi acquisiti dall’ufficio e posti a base dell’accertamento, ancorché dotati dei requisiti di “gravità, precisione e concordanza”. Il ricorso veniva accolto con l’ordinanza in rassegna.

 

Le motivazioni dell’ordinanza

 

La Cassazione, con tale pronuncia, in relazione agli accertamenti induttivi operati sulla base di presunzioni semplici (ex articolo 39, Dpr 600/1973), ha mostrato di volere consolidare il proprio orientamento, di recente espresso nella sentenza 3986/2017, volto ad attribuire valore di prova presuntiva alla perizia eseguita dal tecnico dell’istituto di credito che provvede alla stima dell’immobile ai fini della concessione del finanziamento, in presenza di altri elementi idonei a supportare la presunzione di evasione. Nel motivare l’assunto, la Corte suprema ha svolto un preciso richiamo ad altra propria ordinanza (5374/2017) e ai corollari in essa delineati in materia di “presunzioni semplici”, volti ad apprezzare il corretto “esercizio della discrezionalità nelle fasi di apprezzamento e di ricostruzione dei fatti” da parte dei giudici di merito.

 

Nello specifico, in quest’ultima pronuncia, il tribunale di legittimità ha affermato che, per individuare il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, occorre necessariamente seguire un “procedimento che si articola in due momenti valutativi”: il primo, nel corso del quale, previa valutazione analitica degli elementi indiziari, si provvederà a “scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza ed a conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria”; un secondo momento, nel quale dovrà essere svolta una opportuna (“doverosa”) valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati “per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione possa assurgere a valida prova presuntivache magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi”.

 

Logica conseguenza dell’inosservanza di tali principi di diritto è, secondo la Corte di cassazione, che la relativa decisione può essere censurata in sede di legittimità. In tale direzione, con l’ordinanza in commento, la Corte suprema ha valutato la sentenza della Ctr non conforme ai suddetti principi per avere ritenuto illegittimo l’accertamento dell’Agenzia delle entrate per inidoneità della prova presuntiva offerta dall’ufficio, “malgrado emergessero, oltre ai valori OMI, ulteriori elementi probatori, concorrenti a fondare la pretesa erariale”.

 

In tal modo, secondo il giudice di legittimità, la Ctr si sarebbe limitata a negare qualsiasi valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essiquand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero stati in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, “nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento” (cfr Cassazione, sezione V, sentenza 9108/2012).