Nelle Considerazioni finali sul 2008 il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ricordava: «Negli ultimi vent’anni la nostra è stata una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte» (Banca d’Italia, 2009, p. 19). Al 2015 questi fattori non sono particolarmente mutati e, anzi, il debito pubblico italiano sfonda i 2.100 miliardi di euro toccando il 132,7% del Pil. La timida ripresa economica, testimoniata da un segno più del Pil per tutto il 2015 e per il primo trimestre 2016, spinge a un cauto ottimismo. Tuttavia, sebbene in presenza di valori percentuali positivi, l’Italia cresce meno, e più lentamente, dei nostri principali competitor europei. In questo quadro macroeconomico si sono succeduti ben 4 cicli di programmazione dei fondi strutturali europei e, da quasi tre anni, si è avviato il quinto (2014-2020). Che i fondi strutturali siano uno strumento di politica economica trova consenso unanime; su che tipo di strumento siano, qui incominciano pareri discordanti. Di certo si tratta di risorse che per regola comunitaria sono “addizionali” e non sostitutive di quelle nazionali. Risorse, quindi, che devono rafforzare politiche economiche nazionali e complementari.
Attraverso l’approfondimento delle dinamiche relative ai dati di spesa in conto capitale e del peso delle risorse ascrivibili ai fondi strutturali Ue e al Fondo di sviluppo e coesione (ex FAS), è possibile ottenere un primo insieme di informazioni qualitative sulle politiche di intervento a sostegno della crescita attuate negli ultimi quindici anni in Italia e in particolare sull’integrazione tra risorse ordinarie e aggiuntive (si veda l’Appendice statistica). Questi temi saranno al centro di un dibattito all’interno della XXXVII Conferenza scientifica AISRe, alla quale partecipa la Fondazione Ifel.
Le risorse in conto capitale dal 1995 al 2015
Con i fondi strutturali si punta a finanziare prevalentemente investimenti in infrastrutture materiali e immateriali nonché in capitale umano con l’obiettivo strategico di aumentare la produttività e competitività nel lungo periodo delle aree meno sviluppate. È proprio la carenza di questi investimenti che viene ritenuta la causa principale degli squilibri territoriali e delle disparità economiche, ovvero della scarsa coesione che invece si cerca di massimizzare per garantire una equa ripartizione dei benefici dell’integrazione tra le diverse regioni europee. Tali investimenti, però, devono essere fatti con risorse comunitarie addizionali rispetto a quelle nazionali; hanno una precisa durata pluriennale e vanno cofinanziati con fondi nazionali e regionali. Questi pochi, ma fondamentali principi, fanno emergere un legame a doppio filo tra gli indirizzi di investimento comunitari, e quindi crescita, e quelli di ciascun Stato membro mutuandone, altresì, onori e oneri ossia finalità e regole.
Dopo un andamento sempre positivo degli investimenti in Italia dal 1995 al 2007, gli ultimi dati Istat al 2015 evidenziano un ritorno ai livelli del 2001. La contrazione degli investimenti fissi lordi, con pesanti impatti sul Pil italiano, è frutto di una scelta di politica di bilancio che per contenere la spesa ha agito quasi esclusivamente sulla componente in conto capitale, lasciando libera di crescere quella di parte corrente. Il complesso della spesa in conto capitale della PA ha, infatti, subito un drastico ridimensionamento (-34% tra il 2000 e il 2015) pregiudicando gli spazi di investimento dell’intero comparto. Le risorse pubbliche, scarse, in forte contrazione e soggette a vincoli di bilancio più o meno stringenti, non sono ormai da tempo sufficienti a produrre effetti moltiplicativi, specialmente quelle destinate alle infrastrutture, di cui l’Italia avrebbe un gran bisogno per sostenere la domanda aggregata, ampliare i livelli di servizio, ridurre i divari economici territoriali, recuperare competitività.
Le risorse aggiuntive e la commedia delle parti
A limitare il crollo delle spese in conto capitale della PA ci hanno pensato i fondi strutturali e le risorse per le aree sottoutilizzate, che hanno rappresentato nell’ultimo periodo (2012-2014) il 26,9% delle risorse in conto capitale a livello nazionale, e il 53,4% nel solo Mezzogiorno. Estremizzando si potrebbe dire che un investimento su due nelle regioni meno sviluppate non sarebbe avvenuto senza i soldi europei. Tali dati, insieme alle stime del 2015, che mostrano una spesa in conto capitale al sud alimentata per oltre due terzi (il 67,7%) dalla politica di coesione, creano più di qualche perplessità sulla natura di “aggiuntività” dei fondi strutturali e di quelli per le aree sottoutilizzate, nonostante si tenga conto della distorsione dovuta alla coincidenza del 2015 con il termine ultimo di ammissibilità della spesa rendicontabile della programmazione 2007-2013. Da un lato questi dati, in un’ottica “fondi”, potrebbero rappresentare risultati soddisfacenti: è il segnale che l’Italia non sta restituendo denaro a Bruxelles e un dato che sostiene le previsioni ottimistiche del Governo, fiducioso di raggiungere il pieno assorbimento delle risorse Ue entro il 31 marzo 2017, ultima data utile per inviare le domande di pagamento alla Commissione.
D’altra parte è la conferma che, in particolare nel Mezzogiorno, la spesa in conto capitale, ridotta al lumicino, viene ampiamente rimpiazzata da FESR, FSE e FSC, che invece di sommarsi alle risorse ordinarie le sostituiscono. Oltre a una violazione del principio di addizionalità previsto dai Regolamenti comunitari, secondo il quale per assicurare un reale impatto economico gli stanziamenti dei Fondi non possono sostituirsi alle spese pubbliche dello Stato membro, le politiche per lo sviluppo del territorio, venendo alimentate in modo così massiccio dalle risorse aggiuntive, scontano una serie di criticità proprie dell’uso dei fondi Ue. In particolare i tempi di programmazione del settennio 07-13 hanno determinato ritardi complessivi, soprattutto nell’attuazione dei progetti; bisogna avere il giusto tempo per “spendere bene” e non soltanto “spendere”.
Raramente vi è stata integrazione performante tra le politiche ordinarie e quelle straordinarie, ovvero ha prevalso uno scollamento tra risorse aggiuntive e investimenti ordinari. Che questo sia avvenuto con un tacito consenso di Bruxelles è ormai sotto gli occhi di tutti. Vale allora chiedersi cosa rimanga delle politiche di coesione al di là di un gioco delle parti in cui, soprattutto in ambito comunitario, da un lato con le politiche di austerity si sono mortificati gli investimenti pubblici e dall’altro con i fondi strutturali – in ultima analisi sempre risorse proprie – si sono spiazzate le spese in conto capitale, in particolare in quelle aree del Paese dove questo non doveva assolutamente avvenire. Se poi tutto ciò sia servito ad attutire i contraccolpi della crisi – come riportato nella Sesta relazione sulla coesione economica, sociale e territoriale redatta dalla Commissione – risulta altresì lecito domandarsi se abbia più un senso destinare un terzo del bilancio dell’Unione a una politica economica settennale così formalmente arzigogolata quando poi la realtà dei fatti la palesa come un salvadanaio a cui ricorrere di volta in volta in caso di necessità.