L’Amministrazione finanziaria, nell’attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale può, in linea di principio, avvalersi di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche unico, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria o dal fatto di essere stati acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale. Sono perciò utilizzabili, nell’accertamento e nel contenzioso con il contribuente, i dati bancari acquisiti dal dipendente di una banca residente all’estero e ottenuti dal fisco italiano mediante gli strumenti di cooperazione comunitaria.
Sono questi i principi che si desumono dalla sentenza n. 16950 del 19 agosto 2015, con cui la Cassazione, facendo seguito alle ordinanze 8605 e 8606 dello scorso 28 aprile, ha definitivamente ammesso l’utilizzabilità in Italia dei dati trafugati da dipendenti di istituti bancari, in violazione del segreto bancario, e poi acquisiti dalle autorità fiscali degli Stati dei Paesi membri dell’Ue.
La vicenda processuale
L’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione, per violazione di legge (in particolare degli articoli 37 e 41 del Dpr 600/1973 e dell’articolo 191 del cpp) avverso una sentenza della Ctr di Bolzano che, in accoglimento dell’appello del contribuente, aveva annullato le riprese dell’Agenzia relative a imposte e sanzioni collegate a disponibilità finanziarie detenute all’estero. Secondo i giudici di appello, infatti, era inutilizzabile la documentazione bancaria trafugata da un funzionario di una banca estera, poi acquisita dalle autorità tedesche e da queste divulgate ad altri Paesi Ue, ai fini del contrasto all’evasione fiscale, in virtù dell’articolo 191 del codice di procedura penale, che prevede un generale divieto di utilizzo processuale di prove acquisite in violazione di legge.
La pronuncia della Cassazione
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, ha dato continuità ai principi di diritto enunciati nelle ordinanze gemelle 8605 e 8606 del 28 aprile scorso.
A legittimare i dati provenienti da un’autorità straniera è la direttiva 77/799/Ce del Consiglio sull’assistenza nel settore delle imposte.
Infatti, il 6° considerando della direttiva stabilisce che gli Stati “debbono scambiarsi, a richiesta o no, ogni informazione che sembri utile per un corretto accertamento delle imposte sul reddito o sul patrimonio”, chiarendo, in tal modo, che le procedure di scambio di informazioni previste nella direttiva sono finalizzate alla repressione dei fenomeni di evasione a livello comunitario.
L’articolo 8 della direttiva non impone l’obbligo di trasmettere informazioni quando la legislazione, o la pratica amministrativa, non autorizza l’autorità competente dello Stato, che dovrebbe fornire le informazioni, a raccogliere o a utilizzare queste notizie e quando porterebbe a divulgare un segreto commerciale, industriale o professionale o un processo commerciale, o un’informazione la cui divulgazione contrasti con l’ordine pubblico.
Non rientra, dunque, quale limite alla cooperazione informativa il cosiddetto “segreto bancario”. Infatti, al dovere di segretezza della banca, non corrisponde una posizione giuridica soggettiva, costituzionalmente protetta dei singoli clienti delle banche, né un diritto della personalità, poiché quel segreto, semmai, tutela(va) l’obiettivo della sicurezza e del buon andamento dei traffici commerciali, che non può spingersi, però, fino al punto di farne un ostacolo al dovere (costituzionale) di ogni cittadino di contribuire alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva (articolo 53 della Costituzione).
L’altra argomentazione utilizzata dalla Cassazione per legittimare l’utilizzo dei dati contenuti nella lista fa leva sui rapporti di autonomia tra il procedimento penale e quello tributario. In ordine a quest’ultimo aspetto, va precisato che, in ambito tributario, non vige alcuna previsione generale di inutilizzabilità della documentazione irritualmente acquisita, come accade invece in ambito penale con la previsione di cui all’articolo 191 cpp.
Inoltre, secondo la consolidata giurisprudenza interna di legittimità nell’ordinamento tributario, ai fini di un avviso di accertamento, assumono rilievo e sono utilizzabili anche elementi di prova assunti irritualmente, purché non lesivi dei diritti fondamentali di rango costituzionale, quale quello della libertà personale del contribuente (cfr Cassazione 8273/2003, 19689/2004, 14058/2006, 8990/2007, nonché, da ultimo, le ordinanze gemelle 8605 e 8606 dello scorso 28 aprile).
In altri termini, le violazioni commesse nell’acquisizione degli elementi probatori non si riverberano sulla legittimità dell’atto tributario, a meno che:
- l’acquisizione non sia avvenuta in violazione di una norma tributaria, che sanziona la propria violazione con l’inutilizzabilità della documentazione medesima
- l’acquisizione non sia avvenuta in violazione di un diritto fondamentale di rango costituzionale.
Del resto, come precisato più volte dalla giurisprudenza di legittimità (cfr Cassazione 8605 e 8606 del 2015, nonché 22984/2010 e 6939/2001), l’utilizzabilità, in ambito tributario, di elementi raccolti in sede penale, senza il contraddittorio dell’interessato, si desume, non solo dalla predetta autonomia dei due procedimenti, ma anche dall’articolo 220 delle disposizioni attuative del codice di procedura penale, che impone l’obbligo del rispetto di dette disposizioni, quando nel corso di attività ispettive emergono indizi di reato, ma soltanto ai fini della applicazione della legge penale.
La tesi dell’utilizzabilità è suffragata non solo dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, ma anche da un’analisi comparata della giurisprudenza interna di altri Paesi comunitari. Dal primo punto di vista, i giudici ricordano che, secondo la Corte di giustizia, pur essendo ipotizzabile l’operatività dell’articolo 6 della Corte europea dei diritti umani (diritto a un equo processo) anche in materia tributaria, “l’utilizzazione processuale di prove illegalmente acquisite non costituisce di per sé stessa violazione (della Convenzione), dovendosi valutare se l’intero giudizio, nel suo complesso e nel concreto, sia improntato al giusto processo” (cfr tra le altre, Khan vs Regno Unito 35394/97).
Anche la giurisprudenza francese e quella tedesca ammettono, a certe condizioni, l’utilizzo di prove illecitamente acquisite. Secondo quella francese (che ha così ammesso l’utilizzo della lista Falciani), la provenienza illecita della documentazione rileva solo quando la stessa sia stata direttamente e illecitamente ottenuta dalle pubbliche autorità (cfr Cour de cassation criminelle, Chambre criminelle, 13-85.042 del 27/11/2013). Nel caso di specie, gli elementi contenuti nella lista sarebbero stati illecitamente sottratti dal sistema informatico dell’istituto di credito elvetico dall’ex dipendente Falciani e, solo successivamente, da questi trasmessi all’autorità fiscale francese.
Analogamente, la giurisprudenza costituzionale tedesca (cfr Bundesverfassungsgericht – 9/11/2010 – 2BvR2101/109) esclude l’utilizzabilità della prova illegittimamente acquisita “soltanto nei casi in cui viene invaso il nucleo incompressibile dell’organizzazione della vita privata”.
In conclusione, nel cassare la sentenza impugnata, la Cassazione ha rinviato la controversia ad altra sezione della Ctr, che dovrà attenersi al seguente principio: “L’amministrazione finanziaria, nell’attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale può, in linea di principio, avvalersi di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche unico, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria o dal fatto di essere stati acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale. Sono perciò utilizzabili nell’accertamento e nel contenzioso con il contribuente, i dati bancari acquisiti dal dipendente di una banca residente all’estero e ottenuti dal fisco italiano mediante gli strumenti di cooperazione comunitaria, senza che assuma rilievo l’eventuale illecito commesso dal dipendente stesso e la violazione dei doveri di fedeltà verso l’istituto datore di lavoro e di riservatezza dei dati bancari, che non godono di copertura costituzionale e di tutela legale nei confronti del fisco medesimo. Spetta al giudice di merito, in caso di rilievi avanzati dall’amministrazione, valutare se i dati in questione siano attendibili, anche attraverso il riscontro delle contestazioni mosse dal contribuente”.