Se il Pil italiano dovesse fermarsi quest’anno all’1%, se non addirittura al di sotto (come stima la Banca d’Italia), la messa a punto della legge di stabilità si complicherebbe non poco. Le nuove previsioni porterebbero a dover sanare uno scostamento che costerebbe circa 1,6 miliardi quest’anno e 3,2 miliardi l’anno prossimo.
L’economia italiana cresce meno del previsto. Il Fondo monetario prima e Bankitalia poi hanno certificato che nel secondo trimestre dell’anno il Pil del nostro Paese ha rallentato e con ogni probabilità aumenterà quest’anno ed il prossimo ad un ritmo inferiore rispetto a quanto ci si poteva aspettare solo fino a qualche mese fa. Aprendo così un nuovo fronte per i conti pubblici. Dopo il via libera alla flessibilità ottenuto dall’Unione europea per il 2016 e il 2017, la strada sembrava in discesa per il governo, pronto ad ipotizzare per la prossima manovra più interventi possibili, dall’anticipo del taglio dell’Irpef al bonus famiglia, dal rinnovo del bonus per i diciottenni fino all’aumento delle pensioni minime. Se sulla scia dell’effetto Brexit e della generale assenza di riscossa dell’economia internazionale, il Pil italiano dovesse però fermarsi quest’anno all’1%, se non addirittura al di sotto (come stima la Banca d’Italia), e non schiodarsi dalla stessa percentuale nemmeno nel 2017 (come previsto dal Fmi), la messa a punto della legge di stabilità si complicherebbe non poco.
Le stime del governo italiano sono infatti al momento ferme a quanto previsto nel Def di aprile e non saranno modificate prima di settembre, quando sarà pubblicata l’apposita Nota di aggiornamento. Il Documento di economia e finanza presumeva in primavera una visibile accelerazione rispetto al +0,8% del 2015 con una crescita dell’1,2% nel 2016 e dell’1,4% nel 2017. Secondo quanto concordato con Bruxelles, negli stessi anni il deficit si dovrebbe assestare rispettivamente al 2,3% e all’1,8%. Ma alla luce delle nuove previsioni, mantenere quei livelli di indebitamento pubblico, ottenuti dopo la lunga trattativa portata avanti con la Commissione, significherebbe sanare uno scostamento che costerebbe circa 1,6 miliardi quest’anno e 3,2 miliardi l’anno prossimo. Un conto salato, di quasi 5 miliardi di euro. Per l’anno prossimo il governo ha già però al primo posto della lista il disinnesco di 15 miliardi di clausole di salvaguardia sull’Iva, copribili solo in parte facendo ricorso alla maggiore flessibilità concessa di Bruxelles.
Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha ribadito che evitare l’aumento dell’imposta sul valore aggiunto è un impegno che il governo intende mantenere, così come il taglio dell’Ires, già inserito e coperto nella scorsa legge di stabilità. Ma forse non è un caso che, parlando della strategia dell’esecutivo in materia fiscale, il titolare del Tesoro non abbia minimamente fatto accenno, nella sua ultima uscita pubblica a Confcommercio, all’Irpef. L’idea di anticiparlo nella “scaletta” di riduzione della pressione fiscale potrebbe dunque allontanarsi, lasciando spazio ad altre priorità come ad esempio l’anticipo pensionistico, decisamente meno costoso, e su cui Palazzo Chigi ha già avviato il confronto con i sindacati. A rischio sarebbe peraltro anche la promessa di far scendere, per la prima volta dopo 8 anni, il debito pubblico. La diminuzione al 132,4% prevista del Def è minimale rispetto ai valori del 2015, e per questo estremamente labile.