Spetta al giudice penale calcolare l’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può anche sovrapporsi a quella effettuata nel corso dell’accertamento tributario. Per determinare il superamento della soglia di punibilità e la sussistenza del dolo specifico di evasione nel reato di omessa dichiarazione, il giudice penale può avvalersi dei risultati delle indagini bancarie effettuate in sede amministrativa, a condizione che proceda ad autonoma verifica di tali dati indiziari e di altri elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa. Lo ha affermato la Cassazione, con la sentenza n. 39789 del 26 settembre 2016.
I fatti
L’amministratore di una Snc è stato imputato, in concorso con altri, del reato di cui all’articolo 5 del Dlgs 74/2000, per avere omesso la dichiarazione Iva negli anni 2002, 2003 e 2004. Il tribunale di Roma, dichiarata l’estinzione per prescrizione del reato contestato per i primi due anni, condannava l’uomo per l’ultima annualità. L’imputato ha appellato la pronuncia, lamentando che il giudice aveva calcolato l’evasione sulla base di un volume d’affari “presunto e non effettivo”, tratto dai rapporti bancari, senza considerazione dei costi sostenuti dalla società. La Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rideterminava la pena, riducendola. L’amministratore ha, allora, proposto ricorso per cassazione, deducendo:
- vizio di motivazione, in relazione alla mancanza di una rielaborazione critica delle prove
- violazione di legge in ordine alla sussistenza del dolo specifico di evasione.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, precisando che “ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione ai fini di evasione dell’imposta sui redditi (art. 5, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74), spetta esclusivamente al giudice penale il compito di accertare e determinare l’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi o anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario…”.
Osservazioni
I giudici di legittimità sono stati chiamati a pronunciarsi sulla quantificazione dell’Iva evasa e sulla sussistenza del dolo di evasione, in presenza della regolarizzazione della posizione fiscale successiva alla difficile crisi economica della società, che aveva costretto l’imputato a ritardare l’adempimento per evitare il fallimento. Con riferimento alla valutazione del superamento della soglia di punibilità prevista dall’articolo 5 del Dlgs 74/2000, la Cassazione ha affermato che è rimesso al giudice penale il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa. Quest’ultimo deve essere determinato sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio detraibili, mediante una verifica che, privilegiando il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento fiscale, può sovrapporsi e anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario (Cassazione 38684/2014). Infatti, proprio per l’autonomia dei due processi (penale e tributario) non è configurabile alcuna pregiudiziale (Cassazione 36396/2011).
Il giudice penale, quindi, può sì determinare l’ammontare dell’imposta evasa facendo ricorso alle risultanze delle indagini bancarie svolte nella fase dell’accertamento tributario, ma deve procedere ad autonoma verifica di tali dati indiziari e di ulteriori elementi di riscontro, acquisiti anche “aliunde”, che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa (Cassazione 15899/2016). Nella fattispecie al suo esame, la Cassazione, sotto il profilo della correttezza dei principi di diritto applicati dalla Corte territoriale, ha evidenziato che l’imposta evasa era stata determinata non già solo sulla base di accertamenti bancari, bensì anche sulla base delle fatture emesse nel 2004. Quanto ai “costi in nero”, a prescindere dal rilievo che il ricorrente non aveva indicato il loro eventuale ammontare, la Cassazione ha ritenuto non detraibili quelli dei quali non poteva essere verificata la natura e l’inerenza all’attività d’impresa e ha considerato legittima la determinazione dell’imposta evasa operata tenendo conto solo dei ricavi aziendali, in assenza di ulteriori elementi che potevano far ritenere esistenti i relativi costi.
Con riferimento all’elemento soggettivo del delitto di omessa dichiarazione (articolo 5, Dlgs 74/2000), poi, i giudici di legittimità hanno ribadito (Cassazione n. 18936/2016) che la prova del dolo specifico di evasione poteva essere desunta sia dall’entità del superamento della soglia di punibilità vigente sia dalla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell’esatto ammontare dell’imposta dovuta. Entrambe dimostrate, tra l’altro, dal rinvenimento dei modelli di dichiarazione predisposti, ma non presentati. L’amministratore, infine, non poteva escludere la propria responsabilità invocando l’efficacia scusante della crisi di liquidità alla scadenza del termine fissato per il pagamento, poiché non aveva dimostrato che erano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo (Cassazione 2614/2014 e 8352/2015). E neppure poteva far valere il versamento spontaneo dell’imposta evasa, effettuato successivamente alla presentazione della dichiarazione dei redditi, poiché, per integrare la fattispecie tipica prevista dalla norma incriminatrice, l’evasione, non essendo elemento costitutivo del reato, doveva solo rappresentare la finalità della condotta dell’amministratore (Cassazione 39359/2008).
In conclusione, la Cassazione ha affermato che il versamento spontaneo dell’imposta evasa, effettuato successivamente alla presentazione della dichiarazione dei redditi, non influiva né sulla determinazione dell’imposta né sul superamento della soglia di punibilità (Cassazione 656/2011) e nemmeno era idoneo a escludere la sussistenza del dolo di evasione. Ha precisato, inoltre, che tale adempimento produceva effetti limitati a fini attenuanti (articolo 13-bis, Dlgs 74/2000, ante Dlgs 158/2015) ovvero estintivi della punibilità, ma solo se ne veniva fornita prova. Prova che, nella fattispecie, non risultava né dalla sentenza impugnata né dallo stesso ricorso.