Il diniego di autotutela per l’annullamento di un atto impositivo divenuto definitivo può essere legittimamente impugnato dal contribuente per vizi propri, solo per verificare il corretto esercizio del rifiuto.
Il sindacato del giudice di merito deve limitarsi ad appurare che l’autotutela sia avvenuta in adesione alle nome che ne disciplinano l’esercizio, sicché non gli è consentito sconfinare nella sfera delle autonome valutazioni rimesse alla discrezionalità dell’Amministrazione finanziaria, a cui sola spetta il diritto di annullare o revocare un atto impositivo non più opponibile. Questo, in sintesi, il contenuto della sentenza della Cassazione n. 23765 del 20 novembre 2015.
Il fatto
Il contribuente aveva proposto ricorso dinanzi alla Ctp avverso il diniego dell’Amministrazione finanziaria di annullare in autotutela due pregressi avvisi di accertamento che, nel frattempo, erano divenuti definitivi per difetto di tempestiva impugnazione. Il ricorrente eccepiva l’illegittimità del rifiuto opposto dall’Agenzia delle Entrate per non aver tenuto conto della sentenza di assoluzione emessa dal tribunale penale in merito al reato connesso alla violazione amministrativa.
Avverso la decisione di prime cure, che aveva dato ragione all’Agenzia delle Entrate, veniva proposto appello in Commissione tributaria regionale e qui, in riforma alla decisione di primo grado, trovavano accoglimento i motivi di doglianza addotti dal contribuente.
In particolare, la Ctr ha ravvisato l’illegittimità del diniego perché a carico del soccombente era stata accertata un’obbligazione tributaria in totale assenza di redditi da assoggettare a tassazione. Il convincimento dei giudici di merito si fonda sulle prove acquisite nel corso del giudizio penale che, con “certezza obiettiva”, aveva sancito che “il contribuente non disponeva delle fonti di reddito accertate da parte dell’Ufficio tributario per una serie di raggiri e comportamenti fraudolenti, posti in essere da altri nei suoi confronti”.
La commissione di secondo grado ha affermato, quindi, due principi: il primo, che l’infondatezza della pretesa erariale emersa nel corso del giudizio penale comporterebbe ex se l’illegittimità dell’atto impositivo, che l’ufficio avrebbe dovuto riconoscere in sede di autotutela; il secondo, che un provvedimento, sebbene divenuto definitivo, deve essere annullato ogniqualvolta è fondato su un errato presupposto d’imposta.
Contro la sentenza di secondo grado, gli uffici finanziari hanno proposto ricorso per cassazione. Con i motivi principali di ricorso, l’Agenzia delle Entrate lamenta l’errore di diritto in cui è incorso il giudice dell’appello quando, ritenendo impugnabile l’atto di diniego di autotutela, aveva di fatto reso legittima la possibilità per il contribuente di aggirare “la preclusione derivante dal maturare dei termini di cui all’art. 21 del D.Lgs. 546/1992, attraverso la proposizione (successiva alla definitività degli avvisi di accertamento) di un’istanza di autotutela, fondata oltretutto su elementi che erano già conosciuti dal contribuente prima che i termini venissero a scadenza”.
I giudici della suprema Corte hanno ritenuto fondati i motivi di ricorso dell’Amministrazione finanziaria, hanno proceduto alla cassazione della sentenza impugnata e, decidendo nel merito, hanno rigettato il ricorso introduttivo proposto dal contribuente.
La decisione
Il tema al centro della controversia riguarda la diretta impugnabilità del diniego di autotutela, che costituisce il potere che il legislatore ha affidato all’Amministrazione finanziaria al fine di procedere all’annullamento d’ufficio o alla revoca di atti illegittimi o infondati.
I giudici di legittimità hanno precisato che appartengono alla giurisdizione tributaria “tutte le controversie che hanno ad oggetto i tributi di ogni genere e specie … le sanzioni amministrative comunque irrogate da uffici finanziari, gli interessi ed ogni altro accessorio” (cfr articolo 2, Dlgs 546/1992) e ciò comporta che essa assume carattere generale, competente ogni qualvolta si faccia questione di un rapporto fiscale, compresa l’ipotesi del silenzio-rigetto manifestato dall’Amministrazione finanziaria.
Detto in altri termini, sebbene l’autotutela tributaria sia espressione della discrezionalità dell’Agenzia delle Entrate, in via generale essa può essere impugnata dinanzi al giudice tributario, al quale spetterà il compito di verificare la riconducibilità del provvedimento impugnato alle categorie indicate dall’articolo 19 del Dlgs 546/1992.
Ribadito tale principio, i giudici della Cassazione hanno indicato le regole di fondo e i limiti applicabili alla materia dell’impugnabilità del diniego di autotutela. In ragione dell’impugnabilità nell’ambito del processo tributario, il ricorso avverso il diniego può essere proposto legittimamente solo per vizi propri, giusto il dettato dell’articolo 19 del Dlgs 546/1992, che testualmente recita che “ognuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solo per vizi propri”.
Inoltre, in ragione della natura del diniego all’autotutela, che è frutto di un giudizio discrezionale affidato all’Amministrazione finanziaria, il sindacato del giudice amministrativo “si esplica nei limiti di un controllo inteso a verificare che l’esercizio di detto potere sia avvenuto correttamente ovvero in adesione alle nome positive che ne disciplinano l’esercizio, sicché non è consentito al giudice investito dell’opposizione travalicare i limiti propri delle sue attribuzioni e, sconfinando nella sfera delle valutazioni autonome rimesse dall’ordinamento alla pubblica amministrazione, sostituirsi ad essa nel giudizio di discrezionalità”.
Sulla base di tali corollari, è del tutto evidente l’errore in cui è incorsa la Ctr quando ha ritenuto sindacabile il diniego di autotutela opposto dall’Amministrazione finanziaria, non già per un vizio intrinseco che ne inficiasse la legittimità, ma per le risultanze assolutorie che avevano scagionato il contribuente in sede penale e che questi avrebbe voluto far valere anche in rapporto a due avvisi di accertamento divenuti da tempo definitivi.
Come riaffermato in più punti dai giudici di legittimità, soltanto l’Amministrazione finanziaria, nell’ambito della propria discrezionalità, può annullare o revocare l’atto impositivo non più opponibile per scadenza dei termini.
Inoltre, in caso di opposizione al diniego di autotutela, il giudice di merito può soltanto sindacare l’esistenza di vizi propri dell’atto, verificando se il rifiuto sia avvenuto correttamente e in adesione alle norme che ne disciplinano l’esercizio, e non già sostituire alla valutazione negativa dell’ufficio la propria o adottare un autonomo atto di annullamento .