Le operazioni, non giustificate da reale ragione economica, miravano solo al beneficio fiscale, risultando eseguite in forma apparentemente corretta ma, di fatto, sostanzialmente elusiva. Pone in essere un’operazione finanziaria l’architetto che paga un importo ingentissimo per una semplice inserzione pubblicitaria (solo un ottavo di pagina) su un giornale locale e che ottiene la restituzione di una parte considerevole della cospicua somma pagata da parte di una società del gruppo, facente capo al proprietario della testata giornalistica su cui era stato acquistato lo spazio pubblicitario. Di conseguenza, non è detraibile l’Iva pagata dal professionista per la prestazione ricevuta e da ritenere (anche) non inerente rispetto alla sua attività professionale. Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 16696 del 9 agosto 2016.
I fatti
Con avviso di rettifica per l’anno 1995, l’ufficio, a seguito di una verifica fiscale effettuata nei confronti di un gruppo societario e presso lo studio di un architetto, ha recuperato a tassazione l’Iva detratta dal professionista e relativa a un’apparente operazione pubblicitaria che dissimulava, piuttosto, un’operazione di carattere finanziario a fine speculativo. Dalla verifica era emerso che una Srl del gruppo aveva emesso due fatture (una, il 29 dicembre 1995; l’altra, il 2 gennaio 1996) nei confronti del contribuente, per 614.584 euro. Tale importo, corrisposto al professionista per un’inserzione pubblicitaria di un ottavo di pagina sulla testata giornalistica locale, di proprietà del rappresentante legale della capogruppo, era stato incassato solo in parte dal professionista. Ciò in quanto la somma gli veniva parzialmente restituita dalla capogruppo, dopo vari e contestuali passaggi, svoltisi tutti nell’arco di pochi giorni tra varie società del gruppo, riconducibili al proprietario della testata giornalistica su cui era stato acquistato lo spazio pubblicitario.
L’architetto ha impugnato l’avviso in Commissione tributaria provinciale. La sentenza, favorevole al professionista, è stata confermata in appello. In particolare, la Commissione regionale ha sostenuto che la sproporzione degli importi fatturati non giustificava l’espletamento di accertamenti a carico del contribuente e che l’ufficio non aveva provato né l’inesistenza dell’operazione né la mancanza di inerenza con l’attività professionale dell’architetto.
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, lamentando (anche) l’insufficienza della motivazione della sentenza impugnata. La Corte lo ha accolto, affermando che “… in tema di onere della prova, la dimostrazione …” dell’“inerenza o strumentalità resta a carico dell’interessato …”.
Osservazioni
I giudici di legittimità hanno dato atto che gli elementi probatori acquisiti nel corso delle attività accertative provavano l’inesistenza e la non inerenza della prestazione ricevuta dal contribuente rispetto alla sua attività professionale e che, tuttavia, gli elementi indicati dall’ufficio non avevano ricevuto, nella sentenza impugnata, una risposta adeguata. La Commissione regionale, infatti, nonostante lo specifico riferimento ai fatti rilevanti, alla documentazione acquisita e alla loro incidenza rispetto alla decisione (cfr Cassazione, 4589/2009), non ne aveva affatto tenuto conto e si era limitata ad assumere l’insussistenza della prova, senza compiere un’analitica considerazione delle risultanze processuali (cfr Cassazione, 3370/2012 e 24148/2013).
A tale riguardo, la Cassazione ha richiamato i fatti rilevanti ai fini della decisione e cioè, tra i tanti:
- il pagamento dell’importo ingentissimo per l’inserzione pubblicitaria di appena un ottavo di pagina su una testata giornalistica a diffusione locale (di certo sproporzionato rispetto alla prestazione ricevuta)
- il versamento dell’intero importo effettuato a una consociata, ancora prima dell’emissione della seconda fattura, con assegni bancari intestati ad altra società del gruppo, entrambe riconducibili al legale rappresentante della capogruppo nonché proprietario della testata giornalistica
- la successiva restituzione al professionista di una cospicua fetta di quell’importo (413.166 euro), da parte della capogruppo (alla quale quella somma era pervenuta a seguito di successivi e contestuali passaggi tra le varie società del gruppo)
- l’ammissione fatta dallo stesso contribuente, in sede di verifica, circa la natura finanziaria dell’operazione, consigliatagli dallo studio di consulenza.
Elementi, questi, in rapporto di stretta causalità con la soluzione giuridica della controversia, tanto che, per i giudici di legittimità, se tali circostanze fossero state considerate, avrebbero portato a una diversa soluzione della vertenza. Il giudice di merito, infatti, dopo che il contribuente aveva assolto all’onere di provare il fatto costitutivo del diritto alla detrazione Iva, mediante la produzione delle fatture (cfr Cassazione, 2362 e 27718 del 2013 e 16730/2007), e dopo che l’Amministrazione finanziaria ne aveva dimostrato l’inattendibilità anche mediante presunzioni, avrebbe dovuto prendere in considerazione il complessivo quadro probatorio al fine di verificare l’esistenza delle operazioni fatturate. Ma così non è stato. Il giudice di appello, infatti, non solo non ha tenuto conto del consolidato orientamento di legittimità, secondo il quale l’articolo 19, comma 1, Dpr 633/1972, richiede, oltre alla qualità di imprenditore o di lavoratore autonomo dell’acquirente, un quid pluris costituito dall’inerenza del bene o del servizio acquistato all’attività concretamente espletata, intesa come strumentalità (cfr Cassazione, 2362/2013 e 16730/2007), da identificarsi in base al “… raffronto tra l’operazione passiva e quelle attive, dovendo risultare assolta la prova della strumentalità della prima rispetto alle seconde …” (cfr Cassazione, 4157 e 16853 del 2013), e da valutare, in concreto, tenendo conto dell’effettiva natura del servizio, in correlazione agli scopi dell’impresa o della professione (cfr Cassazione, 8628/2015).
La Commissione regionale ha anche dimenticato che l’onere di dimostrare tale inerenza/strumentalità era a carico del contribuente, non potendosi desumere tali requisiti dalla sola qualità dell’acquirente (cfr Cassazione, 16853 e 4157 del 2013, 3706/2010, 8785 e 1319 del 2009). Infine, la Cassazione ha sottolineato la rilevanza del principio dell’inerenza evidenziando che lo stesso si accompagna, in sede comunitaria (cfr Corte di giustizia Ue, causa C-255/02), con quello del divieto di abuso del diritto. È indetraibile, infatti, l’Iva assolta in corrispondenza di comportamenti abusivi, volti cioè a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale e autonoma ragione economica giustificatrice delle operazioni economiche che, perciò, risultano eseguite in forma solo apparentemente corretta ma, in realtà, sostanzialmente elusiva (cfr Cassazione, 25777/2014).