Come noto, il regime Iva delle cessioni immobiliari è diversamente disciplinato a seconda che si tratti di fabbricati abitativi o strumentali (distinzione che deve essere operata facendo riferimento alla classificazione catastale dei fabbricati, a prescindere dal loro effettivo utilizzo – circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 27/2006) ovvero di terreni.
Con specifico riferimento alle cessioni di fabbricati abitativi (vale a dire le unità immobiliari urbane classificate o classificabili nelle categorie del gruppo A, eccetto gli A/10), l’articolo 10, comma 1, n. 8-bis del Dpr 633/1972 (nel dato testuale attualmente vigente) prevede che le medesime sono, in linea di principio, esenti da imposta, fatta eccezione per le seguenti ipotesi:
- cessioni di fabbricati abitativi operate dall’impresa costruttrice o ristrutturatrice, quando i lavori di costruzione o ristrutturazione sono ultimati non oltre cinque anni prima della data di cessione
- cessioni di fabbricati abitativi operate dall’impresa di costruzione o ristrutturazione oltre cinque anni dopo la conclusione dell’intervento o della costruzione, in presenza di opzione per l’imponibilità espressamente manifestata in atto dal cedente
- cessioni di alloggi sociali, da chiunque effettuate, in presenza di opzione per l’imponibilità espressamente manifestata in atto dal cedente.
La fattispecie esaminata dalla suprema Corte con la sentenza 15620/2016 ha a oggetto la cessione di un fabbricato abitativo non di lusso (non qualificabile come un alloggio sociale), posta in essere da un soggetto diverso dall’impresa di costruzione o ristrutturazione. Detta operazione (che oggi sconterebbe un regime Iva di esenzione), in base alla disciplina normativa applicabile ai fatti di causa (articolo 10, comma 8-bis, Dpr n. 633/1972 nel testo vigente prima delle modifiche apportate dall’articolo 35, comma 8, lettera a), del Dl 223/2006) rientrava fra le operazioni imponibili e, pertanto, comportava la necessità di individuare l’aliquota d’imposta applicabile, tenuto conto del fatto che le cessioni immobiliari Iva imponibili scontano l’imposta attraverso tre diverse aliquote: il 4%, se oggetto di cessione è un’abitazione “prima casa” (n. 21 della tabella A, parte II, allegata al Dpr n. 633/1972); il 10%, se oggetto di cessione è un’abitazione non di lusso diversa dalla “prima casa” (n. 127-undecies della tabella A, parte III, allegata al Dpr n. 633/1972); l’aliquota ordinaria in tutte le altre ipotesi.
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione è dunque chiamata a delineare l’esatto ambito di applicazione dell’aliquota agevolata del 10%, operante in relazione alle cessioni di fabbricati abitativi non di lusso, privi dei requisiti per essere considerati “prima casa”. In proposito, la suprema Corte ha evidenziato che l’aliquota ridotta del 10% si applica sia alla vendita di una o, contestualmente, di due o più case di abitazione non di lusso da parte di qualsiasi soggetto Iva, sia alla vendita da parte del costruttore di fabbricati o di loro porzioni (comprensivi, oltre che di unità abitative non di lusso, anche di locali commerciali, quali negozi o uffici). In entrambe le ipotesi, tuttavia, affinché operi la cennata agevolazione, è necessario che sia provato, dopo la vendita, l’effettivo e concreto impiego abitativo dell’unità immobiliare compravenduta, elemento che non può dirsi integrato dal mero dato catastale dell’immobile compravenduto.
Secondo la Corte, infatti, il n. 127-undecies della tabella A, parte III, allegata al Dpr n. 633/1972, si deve interpretare conformemente alla sua “ratio legis”, che è quella di favorire l’acquisto della proprietà del cespite da destinare a esigenze abitative e, indirettamente, di incentivare lo sviluppo dell’edilizia abitativa. Ne consegue che, in mancanza di detta prova da parte dell’acquirente, è legittimo il recupero a tassazione operato dall’Amministrazione finanziaria, mediante applicazione dell’aliquota Iva ordinaria (in senso conforme: Cassazione n. 11169/2014).