spese, processoIn tema di frodi carosello, i costi delle fatture soggettivamente false sono indeducibili, nonostante il decreto “Semplificazioni” (Dl 16/2012). Ma non basta. In sede cautelare, il sequestro finalizzato alla confisca resta intatto anche se superiore al profitto del reato. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 42994 del 26 ottobre 2015.
 

La vicenda

 

Il fatto trova il suo incipit nel ricorso del legale rappresentante di una società avverso l’ordinanza con la quale il tribunale della libertà confermava il decreto del Gip, che aveva disposto il sequestro preventivo di beni per reati tributari. In particolare, all’imputato veniva contestato di essersi avvalso nelle rispettive dichiarazioni dei redditi e Iva, di elementi passivi fittizi derivanti da documenti contabili attestanti operazioni inesistenti (articolo 2 del Dlgs 74/2000).

 

Nello specifico, l’accusa riguardava un meccanismo di frode che prevedeva, secondo lo schema classico delle “frodi carosello”, dapprima, l’acquisto fittizio di merce senza imponibile Iva da parte di società “cartiere” e la conseguente cessione della stessa, sempre senza imponibile, a società cosiddette “di primo filtro”, che la introducevano nei depositi Iva in Italia; la merce poi veniva venduta con imponibile Iva a società denominate “di secondo filtro”, non versando all’erario le società “di primo filtro” l’Iva riscossa da quelle “di secondo filtro”. Queste ultime, infine, cedevano i beni, con imponibile Iva, alle società destinatarie finali italiane – tra le quali quella concernente l’indagato – che immettevano gli stessi sul mercato. Anche le società “di secondo filtro” omettevano il versamento dell’Iva riscossa per rivalsa dalle destinatarie finali che, portando in compensazione o detrazione l’imposta versata alle società “di secondo filtro”, conseguivano l’evasione.
 

Nel susseguente ricorso per cassazione, il contribuente denuncia l’ordinanza impugnata, tra l’altro, per avere considerato che le operazioni in questione erano vere e reali, con partite di merce effettivamente consegnate e pagate, a dimostrazione dell’esistenza della propria buona fede, per cui ne derivava il diritto dell’indagato a detrazione dell’Iva, non avendo egli tratto alcun beneficio fiscale dalle asserite frodi.
 

La decisione

 

La Suprema corte respinge il ricorso dell’indagato, stabilendo che l’utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti integra pienamente la fattispecie di cui all’articolo 2 del Dlgs 74/2000 e legittima il sequestro, anche per equivalente, finalizzato alla confisca del prezzo, del prodotto o del profitto del reato.

 

A tal fine, con particolare riguardo all’Iva, il giudice di legittimità, mutuando i principi forgiati dalla sezione tributaria e dalla Corte di giustizia, ha evidenziato che l’imposta, in presenza di operazioni soggettivamente inesistenti, non è detraibile, in quanto si tratta di documenti fiscali emessi da chi non ne ha titolo, venendo così meno uno dei cardini fondamentali per la detrazione, costituita dall’effettuazione di un’operazione, giacché questa, ai sensi dell’articolo 19, comma 1, Dpr 633/1972, deve ritenersi carente anche nel caso in cui i termini soggettivi dell’operazione non coincidano con quelli della fatturazione.
 

L’imposta pertanto, in base all’articolo 21, comma 7, del Dpr 633/1972 (comma, peraltro, interamente sostituito dall’articolo 31 del Dlgs 158/2015, in vigore dal 22 ottobre 2015) sarà da considerarsi “fuori conto”, “estraniata” dal meccanismo di compensazione tra Iva “a valle” e Iva “a monte” su cui si fonda la detrazione di imposta (vedi Cassazione 23626/2011).

 

La detraibilità del tributo rimane tuttavia consentita, qualora il committente/cessionario ignori in buona fede di aver partecipato con il proprio acquisto all’illecito fiscale (Corte di giustizia C-80/11 e C-142/11 del 21 giugno 2012). Infatti, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, per dare luogo a detrazione il pagamento della fattura e il relativo versamento dell’Iva, l’imprenditore deve provare, non solo di essere estraneo all’operazione illecita, ma anche di essere ignaro della vicenda (Cassazione 17377/2009).
 

Riguardo, invece, alle imposte sui redditi, la Cassazione rileva che l’articolo 8 del Dl 16/2012 (secondo cui i costi derivanti da attività illecite sono comunque deducibili, salvo che non siano direttamente utilizzati per il compimento del delitto), trova applicazione in sede tributaria, ma non penale (Cassazione 41694/2013).

 

Infatti, con la riformulazione dell’articolo 14, comma 4-bis, della legge 537/1993 a opera del decreto “Semplificazioni”, il legislatore ha ridotto l’ambito di quei componenti negativi del reddito in qualche misura collegati a illeciti penali e non ammessi in deduzione nella determinazione del reddito tassabile di cui all’articolo 6 del Tuir.

 

Tali costi, sottolinea la Suprema corte, sono indeducibili dal contribuente che li abbia consapevolmente sostenuti in quanto espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’impresa, in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza, determinabilità.
 

In altre termini, il fondamentale principio di inerenza (articolo 109 del Tuir) richiede che, tra il costo deducibile e l’esercizio dell’attività di impresa, ricorra un nesso di causa ed effetto che, nel caso di costi da reato, non sussiste a causa dell’antigiuridicità penale della fattispecie delittuosa posta in essere (Cassazione 23626/2011).