architettiI compensi per prestazioni professionali sono soggetti all’imposta sul valore aggiunto, anche se percepiti successivamente alla cessazione dell’attività e alla chiusura della partita Iva. È questo, in sintesi, il principio chiarito dalle sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza del 21 aprile 2016, la n. 8059, pronunciata dopo la rimessione della questione controversa al Collegio, con ordinanza interlocutoria n. 24432/2014 della VI sezione civile.

 

Iter processuale

 

La vicenda all’esame dei giudici di legittimità riguardava un ex architetto, che aveva impugnato un avviso di accertamento per Iva, Irpef e Irap relativamente a compensi, derivanti da prestazioni professionali riscossi nel 2002, nonostante la cessione dell’attività e la dismissione della partita Iva fossero antecedenti.

 

Sia la Commissione tributaria provinciale sia quella regionale confermavano le ragioni del contribuente, annullando l’atto impositivo; in particolare, la Commissione di secondo grado riteneva non assoggettabili all’imposta sul valore aggiunto i compensi in questione perché l’attività professionale era cessata in “epoca remota”, difettando pertanto il presupposto soggettivo.
Per i giudici di secondo grado, dunque, gli importi avrebbero dovuto essere annoverati tra i redditi diversi, di cui all’articolo 67 del Dpr 917/1986, con conseguente sufficienza del rilascio della quietanza.

 

Tale conclusione veniva contestata dall’Amministrazione finanziaria, la quale, ricorrendo in Cassazione, lamentava come i giudici di appello non avessero considerato che il cessato esercizio dell’attività professionale non escludeva la regolare fatturazione delle somme percepite, “perché comunque inerenti all’attività un tempo esercitata e già soggette a imponibilità al momento della maturazione del credito, e perché la cessazione dell’attività non coincide con quella delle sole prestazioni, ma solo con l’estinzione dei rapporti giuridici e con la dismissione dei beni strumentali“.

 

I giudici di legittimità, non avendo riscontrato sul tema precedenti giurisprudenziali, rimettevano, con l’ordinanza interlocutoria n. 24432/2014, la questione alle sezioni unite evidenziando, in particolare, che, come statuito dall’articolo 6 del Dpr 633/1972, le prestazioni di servizio si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo.

 

La pronuncia delle sezioni unite

 

Le sezioni unite della Cassazione hanno innanzitutto rilevato che una simile interpretazione della norma nazionale risulterebbe in contrasto con le direttive comunitarie, sia la sesta direttiva Iva (77/388/Cee) sia quella attuale (2016/112/Ce); dinanzi alle precise indicazioni comunitarie, che vincolano l’imponibilità Iva non al pagamento del corrispettivo bensì al materiale espletamento della prestazione, la norma interna va interpretata nel senso che, per le prestazioni di servizio, il presupposto impositivo, e con esso l’insorgenza dell’imponibilità ai fini Iva, si verifica con l’esecuzione della prestazione. Pertanto, l’incasso conseguito dopo la cessazione dell’attività professionale deve ritenersi assoggettato a Iva, in quanto riferito a una prestazione eseguita nel corso dello svolgimento dell’attività stessa.

 

Difatti, l’ordinamento comunitario contempla il fatto generatore dell’imposta quale nozione autonoma e distinta, sul piano concettuale, rispetto a quella di esigibilità dell’imposta medesima, e, inequivocabilmente, lo ancora al dato del materiale espletamento dell’operazione (cessione del bene o prestazione del servizio). Solo una simile interpretazione, afferma il Collegio, permette di assicurare il rispetto del principio di neutralità: il professionista, infatti, durante la propria attività svolta in regime Iva, ha detratto l’imposta sugli acquisti, risultando, pertanto, corretta l’applicazione dell’imposta sulla prestazione eseguita, anche laddove l’incasso sia avvenuto successivamente alla data di cessazione dell’attività.

 

Tale soluzione è imposta, oltre che dall’opportunità di prevenire strumentalizzazioni elusive, dalla necessità di garantire il principio della neutralità fiscale dell’Iva, in virtù del quale il tributo è esclusivamente destinato a gravare sul consumatore finale, non potendosi risolvere né in svantaggio né in vantaggio per gli operatori economici che intervengono nei passaggi intermedi del ciclo produttivo/distributivo. In assenza di un compiuto e sostanziale esaurimento di tutte le operazioni fiscalmente rilevanti, non possono assumere valore determinante, ai fini dell’esclusione dall’imposizione, i dati dell’intervenuta dichiarazione di cessazione dell’attività e della dismissione della partita Iva.

 

In definitiva, alla luce della normativa nazionale e comunitaria, le sezioni unite della suprema Corte hanno precisato che il compenso di prestazione professionale è imponibile ai fini Iva, anche se percepito successivamente alla cessazione dell’attività (e alla relativa formalizzazione), nel cui ambito la prestazione è stata effettuata.