Le somme oggetto di appropriazione indebita, ad opera del marito dal conto corrente cointestato con la moglie, devono considerarsi, quali proventi illeciti, come redditi imponibili (ex art. 14, comma 4, della legge n. 537/1993), in particolare rientrando nella categoria reddituale dei redditi diversi.
L’appropriazione indebita dal conto cointestato è reddito imponibile. Questo, in sintesi, è il principio di diritto stabilito dalla sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana n. 596/05/19, depositata in data 4 aprile 2019.
I fatti
La controversia decisa dai Giudici tributari fiorentini nasce dalla proposizione di un ricorso in appello da parte dell’Agenzia delle entrate. Avverso una pronuncia resa dalla Commissione tributaria provinciale di Prato.
In particolare, così come osservato puntualmente anche dai Giudici regionali nella parte iniziale della loro decisione riservata allo svolgimento del giudizio. Con la sentenza n. 208, depositata il 2 dicembre 2016, la Commissione tributaria provinciale di Prato accoglieva il ricorso proposto da un contribuente. Contro l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate di Prato in materia di Irpef, per l’anno d’imposta 2010.
L’avviso di accertamento emesso dall’Amministrazione finanziaria aveva nello specifico ad oggetto il recupero a tassazione dell’importo di 1.554.745 euro. Che il contribuente aveva prelevato da un conto corrente cointestato con la moglie.
L’ufficio tributario aveva ritenuto, in particolare, che dovesse applicarsi, in proposito, l’articolo 14, comma 4, della legge 537/1993. In quanto la somma in questione doveva considerarsi quale frutto di un illecito civile commesso dal contribuente stesso a danno della moglie, alla quale l’importo in contestazione era stato sottratto.
La condotta
L’illiceità della condotta del marito era risultata, fra l’altro, secondo l’Agenzia delle entrate, sia dalla sentenza di separazione riguardante i due coniugi, pronunciata dal tribunale di Firenze con addebito a carico del marito proprio in riferimento al comportamento contestato, sia dallo stesso provvedimento di archiviazione penale pronunciato nei confronti del contribuente e motivato dal giudice penale, non sulla base della inesistenza del fatto, ma solo sulla base della causa di non punibilità costituita del rapporto di coniugio (ex articolo 649 cp).
Successivamente nei confronti della pronuncia dei giudici tributari di primo grado proponeva appello l’Amministrazione finanziaria.
Più in dettaglio, l’Agenzia delle entrate di Prato, con atto depositato il 6 marzo 2017, presentava ricorso in appello avverso la sentenza dei giudici tributari provinciali, sostenendo che non potesse dubitarsi, in concreto, del carattere illecito della condotta tenuta dal contribuente, il quale s’era appropriato, in maniera illecita, di somme certamente spettanti al coniuge.
L’impugnazione
Si costituiva, quindi, nel giudizio tributario di secondo grado la parte privata contrastando l’impugnazione avversaria in fatto e in diritto, e chiedendone il rigetto.
Così come poi osservato puntualmente dai giudici regionali nella parte iniziale della loro pronuncia, prima dell’udienza di discussione della causa davanti alla Commissione tributaria regionale della Toscana, l’Agenzia delle entrate
“ha provveduto a depositare in giudizio la sentenza 9.1.2017, n. 44, con la quale il Tribunale di Firenze, pronunciando nelle cause riunite promosse da G. P. (moglie) contro S. C. (contribuente e marito):
– 1. ha condannato il convenuto ‘a pagare all’attrice, a titolo di risarcimento dei danni, gli importi suindicati complessivamente, a 2.052.985,34 euro dei quali [il convenuto] si è illecitamente appropriato’;
– 2. ha revocato, inoltre, per ingratitudine, la donazione indiretta di un immobile, precedentemente compiuta dalla moglie a favore del marito, considerando che dovesse qualificarsi come ingratitudine il fatto, ‘pacifico e documentato, che, in epoca successiva alla donazione indiretta, e cioè il 10 novembre 2010, il Signor C. si era indebitamente appropriato dell’ingente somma di euro 1.256.995,78, di proprietà della moglie, prelevandola dal conto corrente cointestato alle parti’”.
La sentenza
La Commissione tributaria regionale ha compiutamente esaminato le contrapposte posizioni assunte dall’Ente impositore e dalla parte privata, nonché i molteplici e oggettivi elementi posti dall’ufficio tributario alla base della maggiore pretesa impositiva manifestata nei confronti del contribuente.
Tutto ciò ha consentito, quindi, al Collegio giudicante di secondo grado di cogliere, con precisione e puntualità, la complessa e approfondita attività istruttoria messa in atto dall’Amministrazione finanziaria e poi trasfusa nella parte motivazionale dell’atto impositivo emanato.
I giudici di merito, nella parte iniziale della motivazione del proprio pronunciamento giurisprudenziale, hanno, in primo luogo ritenuta pienamente legittima e tempestiva la produzione documentale eseguita, nel giudizio di appello, dall’Agenzia delle entrate della citata sentenza n. 44 del 9 gennaio 2017 del tribunale di Firenze.
Il testo
In particolare, i giudici tributari fiorentini hanno affermato che: “tale produzione risulta, infatti, pienamente conforme alla previsione dell’articolo 58 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (cfr, sul punto, ex plurimis, Cassazione civile, sez. trib., 13/11/2018, n. 29087:
‘Nell’ambito del processo tributario, l’art. 58 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti posti dall’art. 345 c.p.c. ma tale attività processuale va esercitata, stante il richiamo operato dall’art. 61 del citato dlgs alle norme relative al giudizio di primo grado, entro il termine previsto dall’art. 32, comma I, dello stesso decreto, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza, con l’osservanza delle formalità di cui all’art. 24, comma I, dovendo, peraltro, tale termine ritenersi, anche in assenza di espressa previsione legislativa, di natura perentoria, e quindi previsto a pena di decadenza, rilevabile d’ufficio dal giudice anche nel caso di rinvio meramente interlocutorio dell’udienza o di mancata opposizione della controparte alla produzione tardiva’”.
I giudici regionali entrano poi nel merito della questione sottoposta al loro giudizio. E hanno puntualmente evidenziato che deve ritenersi, in conformità anche con quanto accertato in sede di giurisdizione ordinaria. Che il contribuente, trasferendo sul suo conto personale somme che, pur depositate su un conto cointestato, dovevano intendersi di esclusiva pertinenza della moglie, abbia commesso il delitto di appropriazione indebita. Di cui all’articolo 646 cp, sia pure non punibile ex articolo 649 cp operando concretamente la causa di non punibilità del rapporto di coniugio.
La motivazione
Sviluppando il proprio ragionamento logico-giuridico, nonché calandolo sulla realtà concreta sottoposta al loro giudizio, i giudici tributari fiorentini, nella parte centrale della motivazione della propria pronuncia, hanno poi, in maniera chiara e decisa, affermato la tassazione delle somme oggetto di appropriazione indebita, nello specifico statuendo che
“non è dubbio, a parere della Commissione, che le somme che siano state oggetto di appropriazione indebita debbano considerarsi, quali proventi illeciti, come redditi imponibili, quali redditi diversi, ai fini dell’imposta sulle persone fisiche (cfr, : inter alia, Cassazione civile, sez. trib., 5/1/2010, n. 37 ‘Deve attribuirsi efficacia retroattiva all’art, art. 36, comma 34 bis, del decreto-legge n. 223 del 2006 (comma aggiunto dalla legge di legge di conversione n. 248 del 2006), secondo cui i proventi illeciti (nel caso di specie, somme ricevute da un commercialista dai propri clienti e delle quali, anziché versarle all’erario, si era appropriato), qualora non siano classificabili in altre categorie di reddito previste dal tuir, devono considerarsi come redditi diversi’)”.
Si tratta di una chiara e importante statuizione, quella compiuta dalla Commissione tributaria regionale della Toscana, fra l’altro, pienamente conforme al principio fondamentale di capacità contributiva, codificato all’articolo 53 della nostra Carta costituzionale.
Il Collegio giudicante di secondo grado, portando poi a termine il proprio ragionamento, ha, quindi, concluso ritenendo che in definitiva l’atto d’appello presentato dall’Agenzia delle entrate deve essere accolto.
La normativa sulla tassazione dei proventi illeciti
Per quanto riguarda la questione giuridica della tassazione dei proventi illeciti si può evidenziare che nel nostro sistema tributario, alcune tappe normative sono state fondamentali. Ai fini dell’affermazione sul piano legislativo del fondamentale principio della tassazione dei proventi illeciti. Nonché allo scopo di meglio precisarne e definirne le concrete modalità operative nel nostro sistema di imposizione fiscale, e, inoltre, alcuni peculiari aspetti concreti, sempre legati all’applicazione pratica di tale importante principio.
La delicata questione della tassazione dei proventi illeciti, ottenuti cioè grazie allo svolgimento di attività talvolta difficilmente inquadrabili nelle ordinarie categorie reddituali, era stato apparentemente risolto dall’abrogato Tuir (Dpr n. 597/1973) con la norma di cui all’articolo 80, rubricata “Altri redditi”.
In particolare, secondo tale disposizione “Alla formazione del reddito complessivo, per il periodo d’imposta e nella misura in cui è stato percepito, concorre ogni altro reddito diverso da quelli espressamente considerati nelle disposizioni del presente decreto”.
E’ importante notare che nel nuovo Testo unico del 1986, il contenuto di tale disposizione normativa non è stato riprodotto. Principalmente per evitare possibili contestazioni con riferimento al fondamentale principio costituzionale di riserva di legge in materia tributaria previsto dall’articolo 23 della Costituzione. Ricondurre a tassazione fattispecie indeterminate rischiava, infatti, di violare il citato dettato costituzionale.
Imposizione fiscale dei proventi illeciti
In merito alla imposizione fiscale dei proventi illeciti, la svolta normativa fondamentale è giunta nei primi anni novanta, quando il Legislatore del 1993 ha introdotto, nel nostro sistema giuridico, l’articolo 14, comma 4, della legge n. 537/1993, secondo il quale “Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria”.
Successivamente, con la legge n. 136/2010 è stato stabilito che indagini fiscali, economiche e patrimoniali possono essere avviate oltre che nei confronti degli indiziati di appartenere ad associazioni di stampo mafioso, anche per i sospettati di crimini messi in atto in forma organizzata, come i sequestri di persona, lo sfruttamento della prostituzione, l’introduzione ed il commercio nello Stato di prodotti falsi e altri ancora.
Naturalmente, le stesse indagini possono, a maggior ragione, essere indirizzate anche nei confronti di chi, per gli stessi crimini, è stato addirittura condannato, sebbene con sentenza non definitiva.
L’articolo 7 della legge n. 136/2010, prevede poi, in particolare, che tutti i dati e le informazioni acquisiti dai militari della Guardia di finanza possono essere utilizzati per gli accertamenti fiscali, ai fini Iva e delle imposte sui redditi, a meno che il contribuente indagato dimostri che gli stessi redditi sono stati comunque in qualche modo dichiarati.
Il nuovo sistema tributario
E’ importante poi notare, sempre con riferimento alla tassazione dei proventi illeciti, che nel 2006 è stata introdotta nel nostro sistema tributario una disposizione normativa di grande importanza e utilità pratica.
Più in dettaglio, si tratta dell’articolo 36, comma 34-bis, del decreto legge cosiddetto. “Visco-Bersani” (Dl. n. 223/2006), il quale ha stabilito che “in deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, la disposizione di cui al comma 4 dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi”.
Sostanzialmente tale modifica legislativa può avere concretamente, almeno potenzialmente, un effetto molto rilevante ai fini del contrasto all’evasione fiscale. E conclude, inoltre, un iter normativo incominciato, appunto, con il citato art. 14 della legge n. 537/1993, sull’ondata dell’evento della cosiddetta“Tangentopoli”.
In definitiva, la presenza nel nostro sistema tributario del principio della tassazione dei proventi illeciti, garantisce concretamente il pieno rispetto del fondamentale principio costituzionale di capacità contributiva sancito dall’articolo 53 della nostra Costituzione.
In particolare, il primo comma di tale disposizione costituzionale stabilisce, infatti, che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”.
Decisioni di legittimità e merito conformi
La pronuncia dei giudici fiorentini non è isolata. In quanto nel corso degli anni anche altre decisioni, sia di legittimità e sia di merito, si sono pronunciate nel senso della tassabilità dei proventi illeciti.
La Corte di cassazione, ad esempio con la pronuncia n. 17953 del 24 luglio 2013, si è espressa sulla tassazione della attività di usura.
Più in dettaglio, con tale pronunciamento i Supremi giudici sono stati chiamati a pronunciarsi sulla legittimità o meno dell’applicazione operata dal giudice di secondo grado del disposto dell’articolo 14, comma 4, della legge n. 537/1993 anche a periodi di imposta precedenti all’entrata in vigore di questa normativa.
In base a tale disposizione, fra le diverse categorie di reddito debbono ritenersi compresi “i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”.
Con la decisione n. 17953/2013, il Collegio giudicante di legittimità ha ritenuto legittima l’applicazione della legge n. 537/1993. Anche a periodi di imposta precedenti alla sua entrata in vigore (nella specie 1992 e 1993), uniformandosi ad un proprio precedente indirizzo giurisprudenziale (cfr. Cassazione 13360/2009, 13361/2009, 13363/2009, e 8990/2007). Secondo il quale il citato articolo 14, comma 4, costituisce un’interpretazione autentica della normativa contenuta nel Tuir.
Esclusione applicazione retroattiva
Nello statuire ciò, la corte Suprema ha anche escluso che all’applicazione retroattiva del disposto dell’articolo 14 possa ostare il principio di non retroattività delle norme tributarie introdotto dal cosiddetto. “Statuto del contribuente”. Ciò in quanto, per propria costante giurisprudenza, le disposizioni della legge n. 212/2000 non hanno efficacia retroattiva, in base al principio di cui all’articolo 11 disposizioni generali, ad eccezione delle norme che costituiscono attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, in quanto espressione di principi costituzionali vigenti.
Pertanto, in base a tale indirizzo giurisprudenziale, anche l’articolo 3 del cosiddetto “Statuto del contribuente”, che ha codificato il principio di irretroattività nella materia fiscale, non trova applicazione con riferimento alle leggi anteriormente vigenti (cfr. Cassazione 9913/2008 e. 24192/2006).
Alla luce di tali principi, i giudici di piazza Cavour hanno, quindi, ritenuto pienamente legittima la sentenza dei Secondi giudici.
Con la quale era stato avallato l’accertamento induttivo emanato dall’ufficio tributario per gli anni 1992, 1993 e 1994. All’esito di indagini finanziarie svolte sui conti correnti, concernenti movimentazioni non giustificate dal contribuente. Prosciolto per prescrizione dal reato di usura, nonostante l’intervenuto accertamento da parte del Giudice penale dei fatti costituenti il reato allo stesso ascritto.
Decisioni recenti
Ancor più di recente la Commissione tributaria provinciale di Pavia, con la sentenza n. 219/03/18 del 21 giugno 2018, ha espresso il principio di diritto secondo il quale in tema di tassazione dei proventi illeciti. E in assenza di sequestro o confisca penale, i proventi derivati da una attività usuraria, contenendo tutti gli elementi previsti dalla disposizione normativa ai fini della tassazione (articolo 14, comma 4, della legge n. 537/1993), costituiscono un reddito fiscalmente imponibile, in particolare rientrando nella categoria reddituale dei redditi di capitale.
In particolare, i giudici tributari pavesi, nella parte motiva della propria sentenza, sviluppano il ragionamento logico-giuridico posto alla base del percorso motivazionale della propria pronuncia. E hanno, infatti, osservato che “si ritiene di poter affermare che l’amministrazione finanziaria può accertare maggiori redditi derivanti da proventi illeciti (…).
L’art. 14 comma 4 della L. n. 537 del 1993 stabilisce ‘nelle categorie di reddito di cui all’art. 6 comma 1 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 devono intendersi ricompresi, se non in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale.
I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria’. Quindi chi ha un determinato provento commettendo delitti non ha alcuna immunità fiscale.
Ulterori specifiche
Occorre ancora evidenziare che la norma non causa tassazione indiscriminata di tutti i proventi illeciti. Ma solo di quelli che possiedono caratteristiche atte a farli rientrare in una delle categorie reddituali previste dall’art. 6 del Tuir.
A tale proposito la circolare n. 150 del 1/8/94 ha precisato ‘il principio è subordinato alla condizione che l’attività produttiva del reddito. Sia, di per sé considerata, già compresa nella fattispecie imponibili previste dalle norme vigenti’. Tra le fattispecie tassabili vengono esemplificati i redditi di capitale, come provento di una attività usuraia”.
Il collegio giudicante di merito di Pavia, applicando poi tali principi giuridici al caso concreto sottoposto al proprio giudizio. Nel quale era contestata e dimostrata da parte dell’Amministrazione finanziaria l’attività usuraria. Ha, quindi, puntualmente evidenziato che “nel caso in discussione (…attività di usura) si rilevano tutti gli elementi previsti normativamente ai fini della tassazione:
1) la categoria del reddito (reddito da capitale);
2) la disponibilità nella sfera privata dell’interessato delle somme riprese a tassazione (si considerino gli estratti conto);
3) assenza di sequestro o confisca penale”.