accertamento-redditometro-diritto-privacyL’accertamento da redditometro non infrange il diritto alla privacy: i paletti posti dalla norma di salvaguardia non sono generici, riguardano dati specificamente individuati, in caso contrario verrebbe di fatto impedita l’azione “investigativa” del Fisco.


Accolto, con l’ordinanza 17485 dello scorso 4 luglio, il ricorso dell’Agenzia e annullato il provvedimento del Tribunale di Napoli, che vietava agli uffici delle Entrate l’acquisizione e l’utilizzo di dati riguardanti il contribuente ai fini del redditometro. L’attività di controllo del Fisco, infatti, è fondata e regolata secondo disposizioni di legge.

 

Evoluzione del contenzioso

 

La vicenda trae origine dal ricorso proposto dal contribuente, dinanzi al Tribunale di Napoli, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, con il quale chiedeva che venisse riconosciuta la gravità dei pregiudizi e dei danni della privacy che potevano derivargli dall’applicazione del Dm 24 dicembre 2012, in attuazione della norma istitutiva del redditometro, e che venisse ordinato all’Agenzia di astenersi dal raccogliere dati e informazioni, dal monitorare le spese e archiviare i relativi dati.

 

Il Tribunale di Napoli accoglieva il ricorso e ordinava alle Entrate di non intraprendere alcuna ricognizione, archiviazione o, comunque, attività di conoscenza e utilizzo dei dati relativi a quanto previsto dall’articolo 38, commi 4 e 5, del Dpr 600/1973.

 

L’Amministrazione finanziaria, individua due statuizioni in cui è articolata la sentenza:

 

  • la prima rinvenibile nell’ordine rivolto all’Agenzia stessa “di non intraprendere alcuna ricognizione, archiviazione o comunque attività di conoscenza e utilizzo dei dati relativi a quanto previsto dall’art.38, commi 4 e 5, del d.P.R. n.600/1973 e di cessare, ove, iniziata, ogni attività di accesso, analisi, raccolta dati di ogni genere relativi alla posizione del ricorrente”, nonché “.. di distruggere tutti i relativi archivi formatisi successivamente al 21/12/2012
  • la seconda individuata nel passaggio motivazionale dove è affermato che il Dm 24 dicembre 2012, n. 65648, “è non solo illegittimo, ma radicalmente nullo ai sensi dell’art.21 septies legge n.241/19990 per carenza di potere e difetto assoluto di attribuzione in quanto emanato fuori dalla legalità costituzionale e comunitaria”.

 

Alla sentenza, l’Agenzia ha proposto ricorso per cassazione, tra gli altri, per i seguenti motivi:

 

  1. l’improponibilità e/o l’inammissibilità della domanda, per l’avvenuta adozione di una pronuncia che eccedeva i limiti della potestà giurisdizionale del giudice nei confronti dell’Amministrazione dello Stato, non limitandosi, infatti, il provvedimento impugnato, a disapplicare il Dm 65648/2012, ma anche a emettere l’ordine di non intraprendere le attività accertative con metodo sintetico, disciplinate dall’articolo 38, Dpr 600/1973
  2. l’incompetenza del Tribunale di Napoli, a fronte della competenza territoriale, funzionale e inderogabile, individuata nel Tribunale di Roma, in cui aveva la residenza “il titolare del trattamento dei dati” e cioè l’Agenzia delle entrate, che attraverso apposito software applicativo, provvedeva ad acquisire ed elaborare i dati disponibili nell’Anagrafe tributaria e a comunicarli agli uffici periferici per i successivi adempimenti
  3. la violazione e falsa applicazione degli articoli 53 e 101 della Costituzione e delle norme che regolano l’accertamento sintetico, sia puro (articolo 38, comma 4, Dpr 600/1973) che redditometrico (articolo 38, comma 5, Dpr 600/1973). Il Tribunale ha errato nel porre quale presupposto essenziale della decisione l’asserita esistenza di un nesso di causalità tra il Dm 24 dicembre 2012 – che disciplina il nuovo redditometro – e il potere di accertamento dell’Amministrazione, che ha ritenuto di dover inibire. Si devono escludere ragioni per una tutela preventiva, considerando che l’emanazione del richiamato decreto ministeriale non ha comportato l’immediato avvio dell’attività accertativa dell’Agenzia, e il bene giuridico esposto a rischio dal Dm non è un diritto della personalità
  4. eccesso di potere giurisdizionale, nella parte in cui investe tutti gli altri profili estranei alla tutela del trattamento dei dati personali
  5. violazione e falsa applicazione degli articoli 2, 3, 13, 14, 24, 47 e 53 della Costituzione. La ricorrente sostiene che il Tribunale ha errato nel ritenere che il Dm costituisca la fonte del potere dell’Agenzia di utilizzare i dati relativi alla spesa dei contribuenti per fini accertativi.

 

 

Decisione della Corte di cassazione 

 

Preliminarmente, e a seguito di formulata eccezione, la Corte conferma il principio processuale secondo il quale, ai sensi dell’articolo 10, comma 6, del Dlgs 150/2011, per tutte le controversie sull’applicazione delle disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali è previsto un solo grado del giudizio ordinario di merito, con la conseguenza che la sentenza emessa è direttamente ricorribile in Cassazione.

 

Sottolinea la Cassazione che il potere dell’Amministrazione finanziaria di svolgere attività accertative con metodo sintetico trova il suo fondamento, non già nel citato Dm del 2012 (“Contenuto induttivo degli elementi indicativi di capacità contributiva sulla base dei quali può essere fondata la determinazione sintetica del reddito”), che disciplina soltanto le modalità di trattamento dei dati, raccolti ed elaborati in base ad altre e diverse disposizioni di legge, ma nell’articolo 38, Dpr 600/1973, nel contesto della potestà impositiva dell’Amministrazione, che si basa sull’articolo 53 della Costituzione, e nell’attività di accertamento e di raccolta di dati attuata presso l’Anagrafe tributaria.

 

I diritti previsti dall’articolo 7 del Dlgs 196/2003 (“Diritto di accesso ai dati personali ed altri diritti”) concernono il trattamento illegittimo di dati specificamente individuati e non genericamente il trattamento di tutti i dati riguardanti un interessato e indistintamente indicati, “traducendosi altrimenti l’iniziativa in una non consentita opposizione da parte del contribuente all’azione di accertamento dell’Amministrazione, fondata su disposizioni di legge, così da impedire all’Amministrazione di esercitare le potestà ad essa attribuite dalla legge”.

 

Va inoltre rilevato che “la sentenza impugnata ha attribuito al ricorrente una tutela che esorbita dall’ambito dei diritti riconosciuti dall’art. 7 citato” (di ottenere, tra gli altri, la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, l’indicazione delle finalità e modalità del trattamento, l’aggiornamento, la rettificazione e l’integrazione dei dati, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco delle informazioni trattate in violazione di legge; di opporsi, in tutto o in parte, al trattamento dei dati personali che lo riguardano) e che non trova fondamento nel disposto dell’articolo 38 richiamato, così da risultare radicalmente viziata da nullità per violazione di legge, tanto più in quanto fondata su una insussistente nullità assoluta del decreto ministeriale per carenza di potere, laddove il decreto stesso trae ragione della sua esistenza proprio nella previsione del citato articolo 38.

 

La Corte suprema conclude il giudizio con l’accoglimento del ricorso e la cassazione della decisione.