L’accertamento analitico-induttivo è considerato valido anche in caso di congruità: lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 6951 del 17 marzo 2017.
Ai fini dell’emissione dell’accertamento analitico-induttivo non è di ostacolo la presenza di documentazione contabile formalmente corretta né la congruità allo studio di settore applicabile: anche in questi casi, infatti, qualora la contabilità possa essere considerata complessivamente inattendibile, in quanto confliggente con regole fondamentali di ragionevolezza, è legittimo procedere alla ricostruzione dei ricavi d’esercizio facendo leva sulle incongruenze tra quelli dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta.
Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 6951 del 17 marzo 2017, che ha rigettato il ricorso di un contribuente, già soccombente in entrambi i gradi di merito.
La vicenda processuale e la pronuncia della Cassazione
L’Agenzia delle Entrate ricostruiva con metodo analitico-induttivo i ricavi di un contribuente titolare di una ditta individuale esercente attività d’installazione di opere idrauliche, relativamente all’anno 2003. I gradi di merito si concludevano con la conferma dell’avviso di accertamento impugnato; in particolare, secondo la Ctr, la presenza di una documentazione contabile formalmente corretta e la congruità allo studio di settore applicabile non ostavano alla possibilità di rettificare i ricavi dichiarati con metodo analitico induttivo in presenza di alcuni indici sintomatici di una gestione antieconomica dell’attività. A sostegno dell’avviso di accertamento, l’ufficio aveva valorizzato una serie di circostanze che dimostravano l’illogicità della condotta del contribuente, quali la presenza di operazioni (cessioni di materiale più manodopera) senza alcun ricarico, ingenti costi per lavoratori dipendenti, la mancata indicazione nelle fatture del monte ore impiegato per i servizi svolti presso i clienti nonché la presenza di perdite d’esercizio reiterate.
Con il successivo ricorso per cassazione, il contribuente denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 39, comma 1, lettera d), Dpr 600/1973, inoltre omessa pronuncia in ordine all’applicazione del margine di ricarico, delle inferenze logiche tratte dal numero dei dipendenti e dalle ore lavorate e dal difetto di istruttoria. Con altro motivo, lamenta la violazione e mancata applicazione dell’articolo 62-sexies del Dl 331/1993, in quanto il giudice d’appello aveva escluso qualsiasi valenza alla congruità dei ricavi con quelli risultanti dallo studio di settore applicabile.
La pronuncia della Cassazione e ulteriori osservazioni
La Cassazione ha rigettato il ricorso del contribuente, confermando definitivamente l’accertamento impugnato. Quanto al primo motivo, i giudici di legittimità ricordano il consolidato orientamento secondo cui “l’accertamento di cui all’art. 39, 1° co., lett. d) del d.P.R. n. 600/73 è consentito, anche in presenza di scritture contabili formalmente corrette, qualora la contabilità possa essere considerata complessivamente inattendibile, in quanto confliggente con regole fondamentali di ragionevolezza, facendo leva sulle incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta (tra varie, Cass. 13 maggio 2015, n. 9716 e ord. 30 dicembre 2015, n. 26036)“.
Il vizio di omessa pronuncia è stato ritenuto inammissibile implicando un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, il quale è libero di decidere di porre a fondamento della propria decisione alcune fonti di prova con esclusione di altre, senza essere tenuto a esaminare tutte le allegazioni difensive (cfr Cassazione, 16056/2016).
Infondata è stata ritenuta anche la denunciata violazione dell’articolo 62-sexies del Dl 331/1993, in quanto l’accertamento basato sugli studi di settore è solamente uno degli strumenti utilizzabili dall’Amministrazione finanziaria per accertare in via presuntiva i ricavi dei contribuenti.
In alternativa, è possibile procedere al riscontro di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta. Di conseguenza, concludono i giudici, “anche a prescindere dagli studi di settore, è ben possibile all’amministrazione far leva su tali incongruenze a fini accertativi, essendo le stesse di per sé idonee ad evidenziare che le condizioni economiche della società presentano caratteristiche di stranezza, o comunque di singolarità, tali da renderle immediatamente percepibili come inattendibili secondo la comune esperienza (tra varie, Cass. 24 settembre 2014, n. 20060)“.
L’articolo 62-sexies del Dl 331/1993 recita testualmente che “Gli accertamenti di cui agli articoli 39, primo comma, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, e 54 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni, possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’articolo 62-bis del presente decreto“. Dalla norma è possibile desumere che gli studi di settore rappresentano solo una delle modalità con cui procedere all’accertamento analitico-induttivo di cui all’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973.
In alternativa, come nel caso di specie, l’Amministrazione può utilizzare anche altre incongruenze ed elementi indiziari pur in presenza di documentazione formalmente corretta: questi tipi di accertamenti, purché ben motivati, hanno avuto l’avallo della giurisprudenza di legittimità.
In merito alla idoneità di determinate gravi incongruenze a legittimare la rettifica della dichiarazione in via presuntiva, ai sensi dell’articolo 39, comma 1, lettera d), Dpr 600/1973, la Cassazione (sentenza 24436/2008) ha precisato che “In virtù di tale norma, l’ufficio – allorché ravvisi “gravi incongruenze” fra i valori dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta od agli “studi di settore” – può fondare l’accertamento di maggiori ricavi, rispetto a quelli dichiarati, anche su tali “gravi incongruenze” e, quindi, anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 39 citato: il che costituisce, in pratica, un ulteriore elemento presuntivo, di carattere legale, certamente ammissibile anche in presenza di contabilità formalmente regolare“.
Per quanto concerne la legittimità dell’accertamento induttivo fondato sulla dichiarazione di reiterate perdite d’esercizio o redditi irrisori, in mancanza di ulteriori elementi indiziari di evasione d’imposta, occorre preliminarmente evidenziare che costante giurisprudenza, dopo aver affermato che “l’antieconomicità di una attività si valuta nel raffronto tra gli utili conseguiti e la quantità e qualità del lavoro” (cfr Cassazione, 26067/2009), ha individuato nella “mancata remunerazione del capitale investito” un indice di antieconomicità dell’attività gestionale.
L’attività produttiva viene condotta con metodo economico quando è diretta al procacciamento di entrate remunerative dei fattori produttivi utilizzati, mediante lo svolgimento con modalità tali da consentire, nel lungo periodo, la copertura dei costi con i ricavi, assicurando l’autosufficienza economica. In tal senso, la Cassazione, con la sentenza 26067/2009, ha precisato che “l’antieconomicità di una attività si valuta nel raffronto tra gli utili conseguiti e la quantità e qualità del lavoro” e che “il rilievo di non veridicità degli utili denunziati costituisce il legittimo spunto iniziale per l’accertamento analitico induttivo fondato sulle differenze dei prezzi di vendita constatati e quelli iniziali risultanti dalle fatture di acquisto“.
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, “l’irragionevolezza economica del comportamento del contribuente che, per esempio, affermi per più anni di essere finito in perdita o di avere sostenuto costi sproporzionati ai ricavi, rappresenta un fatto sintomatico di possibili violazioni all’obbligo della dichiarazione, perché non essendo conforme a logica ed esperienza impostare o proseguire l’attività secondo criteri o malgrado risultati poco vantaggiosi o addirittura dannosi, autorizza a presumere che l’interessato abbia, in realtà, incassato più di quanto indicato nella denuncia dei redditi” (cfr Cassazione, 21536/2007).
In altri termini, la circostanza che una impresa commerciale dichiari per più anni di seguito, ai fini dell’imposta sul reddito, rilevanti perdite, nonché una ampia divaricazione tra costi e ricavi, costituisce una condotta commerciale anomala, di per sé sufficiente a giustificare da parte dell’amministrazione finanziaria una rettifica della dichiarazione, a meno che il contribuente non dimostri concretamente l’effettiva sussistenza delle perdite dichiarate (cfr Cassazione, 24436/2008).