TARI gonfiata impreseI Comuni continuano a far pagare la Tari anche su quelle aree dove sono le imprese stesse a dover provvedere autonomamente allo smaltimento dei rifiuti prodotti, facendosi carico dei relativi costi con il risultato che l’impresa paga al Comune il costo di un servizio che non viene mai erogato.


 

Dai dati della Camera di Commercio di Milano risulta, ad esempio, che un magazzino all’ingrosso di ferramenta con superficie complessiva di 200 metri quadri di cui 80 destinati ad area produttiva (aree ove si effettuano lavorazioni o stoccaggio di prodotti finiti o semilavorati), paga oggi una Tari di 1.032,40 Euro quando, in realtà, l’importo corretto dovrebbe essere di 619,44. L’aggravio per l’impresa è pari a 412,96 euro (+67%). Emblematici sono anche i casi delle aree espositive, tipicamente di grandi dimensioni ma con una ridottissima produzione dei rifiuti: basti pensare ai mobilifici o agli spazi espositivi dei concessionari di automobili, ove la reale area «produttiva» di rifiuti, rappresenta mediamente solo il 15% della superficie totale. A queste imprese la tassa sui rifiuti viene oggi calcolata invece sull’intera superficie. Altro esempio eclatante di distorta applicazione della tassa sui rifiuti riguarda gli alberghi, generalmente soggetti a coefficienti fortemente squilibrati rispetto al potenziale produttivo di rifiuti.

 

A rilevarlo con lucidità, tra le altre, una sentenza del Tar della Puglia (sentenza n. 570 del 12 marzo 2013) che ha affermato la sproporzione tra la tariffa stabilita dal Comune di Brindisi per gli esercizi alberghieri con ristorazione (€ 11,13 a mq) o senza ristorazione (€ 8,90 a mq) e la tariffa stabilita per le abitazioni (€ 2,43 a mq), in violazione del principio europeo «chi inquina paga». Nel caso di specie l’albergo, con una superficie di circa 1.000 mq, pagava una tassa di 8.941 € quando, in applicazione della sentenza, avrebbe dovuto pagarne 4.492 €. Questi dati non devono sorprendere se si considera che, solo negli ultimi sei anni, come si vede nel grafico seguente, la tassa sui rifiuti è aumentata del 68%, corrispondente ad un incremento complessivo di 3,7 miliardi di euro. Una tassazione crescente che si è riflessa indifferentemente su tutte le principali categorie economiche del terziario con distorsioni eclatanti (rispetto alla media nazionale) per alcune attività. Nonostante la forte riduzione del giro d’affari dovuto alla crisi economica, negli ultimi 6 anni, ristoranti e pizzerie hanno registrato un aumento del 480% mentre ortofrutta e pescherie addirittura del 650%.Una tassazione crescente doppiamente ingiustificata se si considerano i dati riguardo alla produzione totale di rifiuti che, in controtendenza, ha subito un rallentamento. Le imprese, infatti, continuano a pagare di più nonostante negli ultimi sei anni la produzione dei rifiuti sia decresciuta.

 

Altra vistosa distorsione è quella che emerge analizzando gli ultimi dati sulla raccolta differenziata presentati dal “Rapporto sui rifiuti urbani – Ispra 2017”. Il rapporto certifica come il costo di gestione dei rifiuti differenziati (15,12 centesimi di euro al kg) sia inferiore di circa un terzo rispetto a quello degli indifferenziati (40,79 centesimi di euro al kg). Un dato che letto congiuntamente al trend crescente di raccolta differenziata, presupporrebbe una contrazione della spesa complessiva che invece sappiamo essere cresciuta. È evidente, pertanto, come con il pagamento della Tari non si sono andati a coprire solo i costi per migliorare la differenziata, ma anche le inefficienze e gli sprechi del sistema. A fronte di meno rifiuti e di un costo del servizio sempre più alto, le aziende di gestione non sono state capaci di implementare sistemi in grado di traguardare gli obiettivi previsti dalla normativa. Anche se in termini assoluti, nel 2016, la percentuale di raccolta differenziata si attesta al 52,5% nel 2016 (+5% rispetto al 2015), il Paese rimane in ritardo rispetto agli obiettivi fissati a livello europeo.