Decennale di “Fondo Est”: nel 2013 la spesa dalle famiglie italiane per garantirsi il diritto alla salute ha toccato circa il 22% della spesa sanitaria totale, ma solo il 4,7% è stata intermediata da fondi o assicurazioni. Buongiardino: “occorre sgravare le famiglie da oneri economici sempre più difficilmente sostenibili”.
Ogni anno circa 30 miliardi di euro vengono spesi dalle famiglie italiane per garantirsi il diritto alla salute, la cosiddetta “spesa sanitaria privata”. Parliamo di circa il 22% della spesa sanitaria totale (che nel 2013 ammontava nel suo complesso a 144miliardi di euro), un dato in linea con quello che succede in altri grandi Paesi europei, ma che in realtà nasconde un’anomalia: buona parte di questa spesa è di tipo “out of pocket”, ossia non intermediata da fondi o assicurazioni (si stima che solo 1,4 miliardi siano intermediati, ovvero circa il 4,7% del totale della spesa privata).
Insomma, la maggior parte di questa cifra grava direttamente sulle tasche dei nostri connazionali. Occorre invece rafforzare il cosiddetto secondo pilastro, la sanità collettiva integrativo-sostitutiva basata sulla mutualità e di cui sono espressione i Fondi sanitari, le casse e le società di mutuo soccorso. Il risultato? Le Regioni più ricche e col sistema sanitario più efficiente vantano anche una spesa procapite in sanità privata più alta rispetto alle altre, mentre le regioni più povere registrano un fenomeno di “rinuncia alla cura” e di iniquità all’accesso alla tutela della propria salute.
Il dato è contenuto nello studio realizzato da un pool di esperti docenti universitari e presentato a Roma al convegno “Il Futuro dell’Assistenza Sanitaria Integrativa: modello italiano e modelli europei a confronto”, organizzato da Fondo Est (Ente di assistenza sanitaria integrativa del Commercio, del Turismo, dei Servizi e dei settori affini) in occasione del suo decennale. I dati presentati da Fondo Est mostrano come la “spesa sanitaria privata” procapite sia fortemente legata al reddito delle famiglie e alla qualità dell’offerta pubblica.
In base a queste considerazioni si scopre che a guidare la classifica delle regioni con la spesa privata sanitaria più alta troviamo la Lombardia (608 euro), l’Emilia Romagna (581) e il Friuli Venezia Giulia (551), che vantano anche strutture sanitarie pubbliche con standard qualitativi più elevati delle altre regioni. Calabria (274 euro), Campania (263) e Sicilia (245) chiudono questa speciale graduatoria, che appare ormai invariata da dieci anni.
La Spesa Sanitaria Italiana: spesa privata in linea con l’Europa ma con una grave anomalia
L’andamento della spesa sanitaria italiana negli ultimi anni è apparsa oscillante: nel 2004 ammontava a circa 119 miliardi di euro, ed è andata crescendo fino al 2011 quando arrivò a circa 146 miliardi di euro. Dal 2011 in avanti, per effetto dei tagli e della contrazione conseguente alla crisi economica, la spesa sanitaria complessiva è andata lievemente riducendosi, attestandosi nel 2013 intorno ai 144 miliardi di euro, suddivisi tra spesa sanitaria pubblica (78%) e spesa sanitaria privata (22%). Oggi il dato sulla spesa sanitaria privata appare in linea con la media OECD e vicino a paesi come Francia, Germania e Regno Unito, nei quali la spesa sanitaria privata si attesta tra il 18% e il 22% del totale.
Il nostro sistema sanitario si basa sostanzialmente su tre pilastri: la sanità pubblica, basata sul principio dell’universalità, dell’uguaglianza e della solidarietà, cioè il Sistema Sanitario Nazionale che eroga le prestazioni di base (cosiddetto primo pilastro); la sanità collettiva integrativo-sostitutiva, di cui abbiamo parlato (cosiddetto secondo pilastro), e la sanità individuale in cui il cittadino si rivolge al mercato sanitario richiedendo coperture assicurative (cosiddetto terzo pilastro).
Altro punto da sottolineare, che meriterebbe maggiore impegno a sostegno del secondo pilastro, riguarda il rapporto diretto tra paziente e professionista/struttura di erogazione. Soggetti terzi che si inseriscono in questo rapporto possono svolgere una serie di funzioni idonee a bilanciare un rapporto nel quale il paziente manca di competenze mediche e – talvolta – si trova a compiere scelte importanti in condizioni emotive particolari. Strutture di mediazione possono, in questi casi: aggregare una domanda di prestazioni (questo rafforza la capacità contrattuale nei confronti dei professionisti e delle strutture di offerta); permettere di dotarsi, direttamente o ricorrendo a consulenti medici e altri professionisti, di conoscenze e competenze idonee a valutare l’appropriatezza, l’efficacia e la qualità delle prestazioni e il rapporto tra utilità-benefici per i pazienti, costi di produzione delle prestazioni, prezzi richiesti dai professionisti e strutture di offerta; contribuire all’emersione di fenomeni di evasione.
La ricetta di Fondo Est per il SSN: “Far chiarezza sul modello futuro che si intende predisporre”
La sanità integrativa in Italia sconta il fatto di essersi sviluppata in modo disorganico anche se lodevole da parte delle parti sociali che l’hanno costituita con senso di responsabilità all’interno dei C.C.N.L. costituendo il welfare contrattuale. L’introduzione del SSN (legge 833/78) corrispondeva all’idea diffusa di creare una risposta complessiva a tutti i cittadini del nostro paese attraverso la creazione di un vero welfare State. Tale obiettivo ha dovuto tenere conto con il trascorrere degli anni, che le sole risorse pubbliche non erano e non sono sufficienti a raggiungere l’obiettivo della piena tutela della salute dei cittadini. Per garantire i LEA “Livelli Essenziali di Assistenza” definiti e contrattati di anno in anno con le parti sociali, si è proceduto a razionalizzare la spesa pubblica e l’organizzazione della stessa contenendo attraverso diversi strumenti i costi organizzativi.
Si è inoltre cominciato a dare peso alle iniziative sussidiarie attivate dai diversi soggetti sociali. Ma tutto ciò ancora non basta. La cosiddetta seconda riforma del SSN attuata con i D.lgs. 502/92 e 517/93 non è riuscita a dare un chiaro quadro di riferimento. Dopo l’apertura a fondi integrativi ivi prevista e ancor di più con il D.lgs. 229/99, non è stata incrementata la convenienza economica per i fondi introducendo una limitazione alle agevolazioni fiscali per la cosiddetta “Sanità complementare”, cioè aggiuntiva al livelli essenziali di assistenza. Sulla base di questi presupposti è di tutta evidenza che il modello di welfare collegato alla sanità integrativa in Italia sia un “modello in divenire”.
“Oggi – afferma il presidente di Fondo Est, Simonpaolo Buongiardino – mancano delle linee di indirizzo generale ed obiettivi condivisi di natura politica circa il ruolo che questo paese intende attribuire alla sanità integrativa, al secondo pilastro. Manca una normativa fiscale che sia completa, esaustiva ed organica, in linea con gli indirizzi e le finalità politiche dell’architettura complessiva del modello prescelto. Quello che c’è appare disarticolato, parziale, a volte contradditorio o poco chiaro. E’ necessaria un’attività di relazione e coordinamento tra sanità pubblica ed integrativa, ed in questo senso l’Anagrafe dei Fondi costituisce solo un primo ed incompiuto tentativo.
A ben vedere quindi uno scenario nebuloso, incompleto, che richiede una riflessione programmatica da parte delle Istituzioni. Eppure, operazioni di riforma parziale mirate a ridurre le contraddizioni, ad intervenire su singole aree, ad agevolare fiscalmente i Fondi non potrebbero da sole garantire una reale, efficace e solida edificazione di questo secondo pilastro. Ecco quindi che il primo passo da compiersi è quello di aprire un dibattito politico sul modello in quanto tale, ossia se in questo paese si intenda o meno attribuire un ruolo di rilievo alla sanità integrativa; bisognerebbe far chiarezza sugli obiettivi finali, sul punto di arrivo, sul futuro modello di sanità che questo paese intende adottare: una scelta coraggiosa, una scelta impegnativa, ma anche una scelta imprescindibile”.