Il vero responsabile del reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto è chi effettivamente gestisce la compagine ed è in grado di assolvere gli adempimenti fiscali.
L’amministratore di diritto è un mero prestanome, che concorre nel reato a titolo di corresponsabilità per omesso impedimento dell’evento. Questi, difatti, non ha alcun potere di ingerenza nella compagine societaria ma, avendo accettato la carica, ne ha assunto anche i rischi connessi, tra cui quelli dell’articolo 2639 del codice civile.
È quanto emerge dalla sentenza n. 47239 del 10 novembre 2016, della terza sezione penale della Cassazione, secondo cui, per taluni reati societari, nel delitto di omesso versamento dell’Iva, il dato fattuale della gestione sociale deve prevalere su quello solo formale.
Vicenda processuale
Il giudizio aveva origine dal ricorso avverso l’omesso versamento dell’Iva contestato a una società. La decisione di primo grado e la successiva sentenza della Corte d’appello ritenevano che il reato di omesso versamento dell’Iva (ex articolo 10-ter, Dlgs 74/2000) fosse stato correttamente contestato all’amministratore di fatto della società, in concorso con il legale rappresentante – che sembrava invece ignorare le vicende societarie – dal momento che lo stesso amministratore di fatto, oltre a essere fisicamente presente nella sede dell’azienda, intratteneva in concreto i rapporti commerciali con le altre aziende, con i clienti e i fornitori.
L’imputato proponeva ricorso per cassazione, eccependo, tra gli altri motivi, la nullità della sentenza e ritenendo che il responsabile del delitto contestato, trattandosi di reato proprio, fosse esclusivamente l’amministratore di diritto. Contestava, inoltre, genericamente la sua qualità di amministratore di fatto, senza addurre, tuttavia, elementi concreti di prova ai fini di un’eventuale ricostruzione alternativa della fattispecie.
Le osservazioni della suprema Corte
Il ricorso veniva giudicato inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi con la conferma, quindi, della condanna a carico del manager e amministratore di fatto dell’impresa. La suprema Corte ha evidenziato, in particolare, come il contribuente non avesse fornito prove circa la sua estraneità all’amministrazione di fatto della società. I giudici di legittimità, richiamando anche proprie precedenti pronunce (Cassazione nn. 15900/2016, 38780/2015 e 23425/2011), hanno ribadito che la responsabilità penale per l’evasione Iva della società era da attribuirsi essenzialmente all’amministratore di fatto dell’azienda, quale unico vero gestore in grado di compiere l’azione dovuta e, dunque, quale soggetto attivo del reato.
Al prestanome può essere imputata una responsabilità a titolo di concorso solo in base alla posizione di garanzia prevista dall’articolo 2392 cc, in virtù della quale l’amministratore è tenuto a conservare il patrimonio sociale impedendo che si verifichino danni per la società e i terzi. L’amministratore di diritto, dunque, è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell’evento, avendo assunto con l’incarico i rischi connessi. Questo perché il prestanome non ha alcun potere di ingerenza nella società ma, accettando la carica, ha assunto i rischi a essa connessi, tra cui quelli dell’articolo 2639 del codice civile.
Nel caso in esame, infatti, la società non aveva provveduto al pagamento dell’Iva entro i termini previsti, con la conseguente configurazione del reato di omesso versamento dell’imposta ex articolo 10-ter, Dlgs 74/2000; l’effettiva amministrazione della società risultava svolta, in via pressoché esclusiva, dal socio, mentre figurava un altro soggetto nelle vesti di amministratore di diritto.
Quanto alla responsabilità dell’amministratore di fatto nei reati propri, la suprema Corte ha precisato che, in linea generale, il concorso dell’extraneus nel reato proprio è configurabile laddove vi sia volontarietà della condotta di apporto a quella dell’intraneus (Cassazione nn. 12414/2016 e 16579/2010).
Inoltre, precisa la Corte, ai fini dell’attribuzione a un soggetto della qualifica di amministratore “di fatto”, non occorre l’esercizio di tutti i poteri tipici dell’organo di gestione, ma è necessaria una significativa e continua attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico od occasionale (Cassazione nn. 22108/2014 e 35346/2013). Viene, dunque, ribadita la prevalenza del dato fattuale (amministratore di fatto) della gestione sociale sul dato formale (amministratore di diritto, prestanome). Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso è conseguita altresì la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.