Tra i vari progetti del Governo collegati alla riforma della pubblica sicurezza figura anche il cosiddetto “scudo penale” per le forze di polizia: scopriamo di cosa si tratta e perché fa discutere.


Nel 2024, le varie manifestazioni tenutesi in Italia hanno prodotto un bilancio significativo in termini di tensioni e violenze, con 273 operatori delle forze dell’ordine feriti, un dato che segna un preoccupante incremento del 127,5% rispetto all’anno precedente.

Dinanzi a questo scenario, l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni sta vagliando l’introduzione di uno “scudo penale” per gli agenti impegnati in piazza nell’esercizio delle proprie funzioni.

Si tratterebbe di una misura che mira a proteggere carabinieri e poliziotti dall’automatica iscrizione nel registro degli indagati in caso di utilizzo dell’arma di ordinanza nell’esercizio delle proprie funzioni, qualora sia evidente che il loro comportamento sia stato legittimo, il cd. “atto dovuto”.

“Scudo penale” per le forze di polizia: di cosa si tratta?

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, ha assunto un ruolo centrale nella definizione del nuovo istituto, su precisa richiesta della premier Giorgia Meloni. L’idea è evitare che gli agenti siano immediatamente iscritti nel registro degli indagati. L’iscrizione, infatti, avverrebbe solo in presenza di prove evidenti contro il soggetto indagato. Inoltre, la competenza passerebbe dalle procure ordinarie alle Corti d’Appello, nel tentativo di ridurre i tempi e le pressioni sugli operatori delle Forze dell’ordine.

Il governo intende così tutelare gli agenti dalle lunghe indagini che spesso comportano sospensioni dal servizio e dallo stipendio, con inevitabili ripercussioni professionali e personali. Tuttavia, la discrezionalità del magistrato inquirente rimarrebbe intatta: quest’ultimo potrebbe procedere qualora emergessero elementi di prova sufficienti durante le indagini.

I casi di cronaca collegati al dibattito

Un caso emblematico è quello del carabiniere che, a Rimini, ha ucciso un cittadino egiziano dopo che quest’ultimo aveva accoltellato quattro passanti. In situazioni simili, la nuova procedura consentirebbe al pubblico ministero di effettuare accertamenti rapidi, come ascoltare i testimoni o analizzare eventuali video della scena, per poi richiedere l’archiviazione. L’obiettivo è evitare che il responsabile dell’azione, in questo caso il carabiniere, venga iscritto nel registro degli indagati, salvo emergano nuovi elementi di prova che richiedano la riapertura dell’inchiesta.

Parallelamente alla discussione legislativa, si alza il grido di allarme degli agenti impegnati nelle manifestazioni, come quelle seguite alla morte di Ramy Elgaml, il giovane egiziano deceduto a Milano durante un inseguimento con i Carabinieri.

Le tensioni sono esplose anche a Bologna, dove un poliziotto ha raccontato la drammaticità degli scontri. «Non ho mai visto una cosa del genere. Ho visto i miei colleghi feriti: uno con una spalla lussata, un altro con un dente rotto, un terzo che dall’alba di domenica sente un fischio nell’orecchio: un bombone gli è esploso sotto i piedi. Le immagini le avete viste tutti, ma credetemi: un conto è vederle, altro è starci in mezzo», afferma l’agente. «Ma c’è un limite a tutto. Nel senso: fate qualcosa, altrimenti ci ammazzano». Secondo il poliziotto, infatti, «vogliono il morto, vogliono i morti. Perché devono vendicare Ramy».

Dubbi di legittimità e di equità

Ad ogni modo, la questione solleva dubbi di legittimità e di equità, soprattutto in ordine al principio costituzionale secondo cui la legge è uguale per tutti. Al riguardo, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha ipotizzato di estendere la nuova procedura a tutti i cittadini, al fine di non riservare un trattamento privilegiato esclusivamente alle forze dell’ordine. Questa proposta, pur mirando a garantire equità, apre a riflessioni sulla sua attuazione pratica e sugli eventuali impatti sul sistema giudiziario.

L’estensione della procedura a tutti i cittadini influirebbe anche sulle fattispecie di legittima difesa, come nel caso di cittadini che si difendono con armi durante rapine o furti in casa. In tali situazioni, se le prove a disposizione della procura dimostrano chiaramente l’assenza di un illecito, la persona interessata potrebbe non essere iscritta nel registro degli indagati.

Il caso delle chat interne degli operatori di sicurezza

D’altro canto, però, desta preoccupazione quanto emerso da alcune chat interne agli operatori della sicurezza. C’è chi invoca piena libertà d’azione contro «i comunisti di merda» e chi accusa che «non ci fanno lavorare».

A riportare le conversazioni interne di poliziotti e carabinieri è Il Fatto Quotidiano e sembra che lo scudo penale incontri un ampio consenso. Nelle chat c’è anche chi critica l’ex capo della polizia Franco Gabrielli per le sue osservazioni sulle modalità dell’inseguimento che ha causato la morte del diciannovenne egiziano. Al contrario, trovano sostegno il comandante dei carabinieri Salvatore Luongo e il capo della polizia Vittorio Pisani, che hanno ribadito che «la libertà di manifestazione è uno dei pilastri fondamentali della democrazia, e come tale va garantita». Tuttavia, hanno anche precisato che «comportamenti violenti e contrari alla legge devono essere puniti», lodando infine «la moderazione e l’equilibrio dimostrati» dal personale sotto il loro comando.

Cosa accadrà nel prossimo futuro?

La proposta dello “scudo penale” per le forze dell’ordine apre un dibattito complesso e delicato, dove si intrecciano esigenze di tutela degli agenti, il rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e le implicazioni pratiche sul sistema giudiziario.

Sebbene l’intento dichiarato sia quello di garantire maggiore serenità operativa alle forze dell’ordine, evitando iscrizioni automatiche al registro degli indagati in caso di azioni legittime, emergono significative criticità legate all’equilibrio tra protezione degli operatori e salvaguardia dello Stato di diritto.

L’estensione della misura a tutti i cittadini potrebbe rappresentare un passo verso una maggiore equità, ma solleva interrogativi sulla sua effettiva applicabilità e sugli eventuali rischi di ingolfamento delle Corti d’Appello.