Sta facendo molto discutere una recente pronuncia della Cassazione che delimita e circoscrive solo a determinate circostanze considerare il saluto romano come un reato.
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno affrontato la delicata questione del saluto fascista, cercando di risolvere le divergenze emerse da precedenti sentenze della stessa Corte. L’attenzione si è concentrata su un episodio verificatosi ad aprile del 2016 durante una commemorazione a Milano.
Dopo un’intensa discussione di tre ore in camera di consiglio, la Suprema Corte ha preso una decisione significativa: un nuovo processo di appello è stato ordinato per gli otto imputati. Questi individui erano stati inizialmente assolti in primo grado, ma successivamente condannati in secondo grado da altri giudici.
La richiesta del pubblico ministero di confermare le condanne non è stata accolta: scopriamo dunque qual è stata la motivazione dei giudici cassazionisti.
Saluto romano, per la Cassazione non è sempre un reato
Il procuratore generale ha argomentato che “il saluto fascista rientra nel perimetro punitivo della legge Mancino quando realizza un pericolo concreto per l’ordine pubblico.” Tuttavia, tale argomento non ha convinto la Corte.
I giudici non hanno escluso completamente il richiamo alla legge Mancino del 1993 (che analizzeremo più avanti). Hanno affermato che “a determinate condizioni” potrebbe configurarsi la violazione di questa legge, che proibisce “manifestazioni esteriori proprie o usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.”
Quindi, secondo le Sezioni Unite, “i due delitti possono concorrere sia materialmente che formalmente in presenza dei presupposti di legge.”
In attesa delle motivazioni che chiariranno ulteriormente la sentenza, le Sezioni Unite hanno “riqualificato” i fatti alla luce della legge Scelba, approvata nel 1952. In particolare, si è fatto riferimento all’articolo che prevede che “chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con una multa.”
In estrema sintesi, secondo la Cassazione, il saluto romano rappresenta una fattispecie punibile solo quando sia idonea a integrare il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista e che quindi non sia punibile se eseguito durante una semplice commemorazione.
L’apologia di fascismo è comunque un reato
Dopo aver analizzato la sentenza della Cassazione nel merito occorre comunque ricordare che in Italia, a prescindere, esiste il reato di apologia di fascismo.
Si tratta di una condotta penalmente perseguibile, prevista dall’art. 4 della già citata legge Scelba attuativa della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione.
La “riorganizzazione del disciolto partito fascista” avviene ai sensi dell’art. 1 della citata legge:
«quando un’associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista.»
La legge n. 645/1952 sanziona chiunque «promuova od organizzi sotto qualsiasi forma, la costituzione di un’associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista, oppure chiunque pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche».
Ogni tipo di apologia è punibile con un arresto dai 18 mesi ai 4 anni.
La legge Mancino
Infine si fa presente che la citata legge Mancino (legge 25 giugno 1993, n. 205) sanziona e condanna frasi, gesti, azioni e slogan aventi per scopo l’incitamento all’odio, l’incitamento alla violenza, la discriminazione e la violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. La legge punisce anche l’utilizzo di emblemi o simboli.
L’art. 1 (“Discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi“) dispone quanto segue: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, […] è punito:
- a) con la reclusione fino a un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;
- b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni.”
Il testo della Sentenza della Cassazione
Fonte: articolo di redazione lentepubblica.it