Un approfondimento, a cura di Fabio Ascenzi, dedicato a genesi ed esperimenti di regionalismo differenziato con l’analisi del periodo storico che va dalla riforma del Titolo V della Costituzione alla legge sull’autonomia.
Approvata la legge sull’autonomia differenziata, per la prima volta dopo tanti anni, si sono formati schieramenti alquanto omogenei, con i partiti di centrodestra uniti a favore del provvedimento e quelli di centrosinistra assolutamente contrari. Durante le dispute viene spesso evocato l’elemento fondativo della norma appena approvata, e cioè quell’art. 116 terzo comma introdotto nella nostra Costituzione dalla riforma del Titolo V del 2001. Ad affiorare, ovviamente, non sono tanto dissertazioni giuridiche quanto piuttosto l’opportunità che tale riferimento consegna agli attuali sostenitori dell’autonomia, potendo schernire gli avversari che con questa legge procedurale si è voluto dare semplicemente attuazione a una modifica voluta anni addietro dallo stesso centrosinistra.
Dalla riforma del Titolo V della Costituzione alla legge sull’autonomia
Un tema ricorrente e avevo detto che all’occorrenza ci sarei tornato. Al di là della strumentalità dell’argomento, è indubbio che se oggi ci troviamo ad affrontare questi temi è proprio per il virus latente del regionalismo differenziato introdotto in Costituzione da quella riforma. Ma non solo: paradosso vuole che se agli inizi degli anni Novanta del Novecento fu la Lega Nord a imporre nell’agenda politica le tematiche dell’autonomia e del federalismo, furono però poi i governi di centrosinistra ad approvare, in epoche diverse, gran parte della relativa legislazione, la citata riforma del Titolo V e nel 2018 le pre-intese con tre Regioni per l’autonomia differenziata.
Risulta allora interessante interrogarsi sul perché si volle introdurre quella modifica costituzionale tanto discussa. La domanda meriterebbe una risposta articolata e complessa, vi ho dedicato diverse pagine nel mio libro scritto sull’argomento. Dovendo semplificare non si può che partire da una memoria delle dinamiche politiche dell’epoca, che vedevano i portatori delle istanze autonomistiche capeggiati dalla Lega Nord spingerle ancora oltre, con minacce addirittura secessioniste, forti anche delle posizioni di governo conquistate in alcune importanti Regioni settentrionali e in moltissime amministrazioni locali.
In quel contesto il centrosinistra, allora al Governo nazionale, cercò di approntare degli strumenti di reazione nel tentativo di contenerle, illudendosi che bastasse qualche innesto di federalismo inserito nella Carta per intercettare e depotenziare tali istanze territoriali, nonché a mandare in frantumi l’alleanza della Lega con il centrodestra. Pertanto, la riforma costituzionale del 2001 fu innanzitutto il risultato diretto di un approccio al federalismo imposto dall’immaginario delle forze politiche in campo.
Ma non v’è dubbio che per conseguire quel risultato vennero fatte delle forzature sulla tempistica e sulla modalità di approvazione che ne hanno segnato anche i destini futuri. Per la prima volta una legge di revisione costituzionale venne approvata da una maggioranza limitatissima (solo 4 voti in più alla Camera); per la prima volta vennero attivate le richieste per il referendum confermativo ex art. 138 Cost. sia da chi voleva affossarla, sia dai suoi fautori che volevano trovare nelle urne l’investitura popolare. Il referendum ci fu, e la riforma venne approvata.
Oggi sappiamo che quei vantaggi politici attesi dalla strategia del centrosinistra non si realizzarono, mentre con le problematiche introdotte dalle modifiche costituzionali che vennero approvate stiamo facendo ancora i conti.
Problemi e lacune nella riscrittura del Titolo V
Non mi riferisco solamente all’introduzione del regionalismo differenziato, ma anche ai numerosi problemi evidenziati nel tempo da una riscrittura del Titolo V che molti studiosi hanno definito poco brillante e lacunosa.
Basti pensare all’art. 114 Cost., che ha modificato in maniera sostanziale la gerarchia dei rapporti tra Stato, Regioni e autonomie locali; o all’art. 117 Cost., che prima prevede una non chiara demarcazione tra la potestà legislativa esclusiva dello Stato e quella concorrente Stato-Regioni, e infine ne traccia anche una cosiddetta residuale, attraverso cui la competenza legislativa in tutte le materie o ambiti non assegnati allo Stato spetta ora alle Regioni.
Nel disegno costituzionale del 1947 l’equilibrio tra le esigenze unitarie e le esigenze di autonomia era riassunto nella disciplina della potestà legislativa regionale, ma la legge statale rimaneva centrale nella costruzione delle garanzie del principio di unità della Repubblica. Nella nuova formulazione dell’art. 117 Cost., invece, sembra che la legge dello Stato abbia oramai perso la competenza generale e non possa più porsi quale elemento unificante del sistema complessivo. E infatti il quadro che si venne a delineare a seguito della riforma è stato alquanto incerto, tanto che è letteralmente esploso il conflitto sulle competenze Stato-Regioni, con la Corte costituzionale costretta ad assumere un protagonismo sempre più spiccato, sfociato in una vera e propria riscrittura del processo riformatore messo in atto dal legislatore.
La mancanza di una disciplina transitoria e di attuazione della riforma Costituzionale
Al di là degli aspetti giuridici più stretti, ritengo che il problema principale sia stato l’assenza di un’accurata disciplina transitoria e d’attuazione della riforma che, a fronte di modifiche così pregnanti del quadro costituzionale, sarebbe stata necessaria per governare il passaggio dal vecchio al nuovo assetto dei poteri legislativi.
Si sono riproposti negli anni tutti quei limiti politici di un immaturo bipolarismo italiano che non è stato mai in grado di dare la necessaria continuità ai vari processi messi in atto, perpetrando un atteggiamento schizofrenico, alimentato solo dalle convenienze, alterne, di parte.
Le stesse modalità di approvazione della riforma, passata con una maggioranza risicata, hanno rappresentato un evidente limite endogeno, una sorta di peccato originale, poiché solo un’ampia condivisione iniziale avrebbe potuto garantire l’attuazione lineare della stessa, a prescindere dall’alternarsi delle diverse maggioranze politiche nel tempo. Ma così non fu: dopo la vittoria elettorale del centrodestra, dell’attuazione della riforma si dovette occupare un
Governo sostenuto proprio da quelle forze politiche che nell’iter parlamentare e nell’appuntamento referendario l’avevano fortemente osteggiata; ovvia conseguenza fu l’ostilità all’attuazione del nuovo quadro costituzionale, e un freno ai primi timidi tentativi delle Regioni di usare i nuovi poteri.
La volontà di un “federalismo più spinto”
La neonata coalizione trovò giustificazione nell’obiettivo dichiarato di introdurre un federalismo più spinto (la cosiddetta devolution), poiché considerava insufficiente quello introdotto dalla precedente riforma. Un tentativo venne fatto con l’ennesima revisione del Titolo V del 2005, approvata ancora una volta a maggioranza semplice, ma bocciata successivamente dal referendum confermativo nel 2006.
Quella presunta riforma della riforma fu l’impegno di un’intera legislatura, durante la quale però si erano disattese, gran parte delle pur minime innovazioni positive introdotte dalla riforma del 2001 che, se ben articolate, avrebbero potuto in qualche modo realizzare, tra pro e contro, un embrionale principio di affermazione delle autonomie: il federalismo fiscale; la legislazione di principio; l’individuazione delle funzioni fondamentali spettanti agli enti locali; l’integrazione della Commissione bicamerale con rappresentanti delle Regioni e delle autonomie; l’attuazione del decentramento di ulteriori funzioni amministrative. Tutte mancanze che hanno completamente mutato, in negativo, le aspettative e le possibilità che avrebbero potuto vedere luce all’interno di un percorso lineare ben definito, ma mai compiuto.
Lo sottolineo perché sono argomenti che tornano ora dirimenti anche nelle ipotesi di attuazione dell’art. 116 Cost., terzo comma; nonché sulle motivazioni che possono essere addotte da chi ritiene che proprio il mancato sviluppo di quei punti attuativi del processo riformatore avviato nel 2001, in particolare il federalismo fiscale introdotto dalla legge n. 42 del 2009, sia oggi il maggiore ostacolo all’attuazione di un’autonomia differenziata che possa rimanere aderente ai princìpi fondamentali dettati dalla nostra Costituzione.
Un regionalismo travagliato
Le vicende storico-politiche del regionalismo italiano sono state lunghe e travagliate. Ecco perché ritengo superficiale liquidare semplicemente come contraddittorie o strumentali posizioni che in passato abbiano guardato con favore ad alcune forme di autonomia, mentre oggi ritengono la legge appena approvata inadeguata, nonché soggetta a rischio di legittimità costituzionale per molti suoi profili.
Promuovere un modello di autonomia regionale solidaristica, o altrimenti detta cooperativa, sarebbe infatti assolutamente coerente con quello ispirato ai princìpi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione che, con tutti i suoi limiti, era stato comunque posto alla base della riforma del 2001. Tutt’altra cosa, invece, sarebbe sostenere un modello di differenziazione competitiva, che pone a presupposto delle richieste il mantenimento della spesa storica e, direttamente o surrettiziamente, il trattenimento sui propri territori del presunto residuo fiscale, poiché le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia previste dal dettato costituzionale non esonerano certo chi le ottenga dall’obbligo solidale di partecipare allo sviluppo della Repubblica nel suo insieme e di garantire l’eguaglianza sostanziale di tutti i cittadini pretesa dal secondo comma dell’art. 3 Cost. Non è solo questione di solidarietà, ma di costituzionalità.
Fonte: articolo di Fabio Ascenzi