Il rapporto giuridico esistente tra le perdite di esercizio rilevate negli anni precedenti e successivi alla cessione dell’azienda, ancora una volta, è stato oggetto di esame da parte della Cassazione per riaffermare la corretta interpretazione della norma di registro in tema di valutazione delle aziende (articolo 51, comma 4, del Tur) e consolidare l’impostazione secondo cui il valore dell’avviamento commerciale, costituendo una qualità dell’azienda, deve essere sommato a quello degli altri beni che la compongono e non è possibile escluderlo a prioriove l’impresa abbia chiuso con perdite negli esercizi passati e/o successivi all’atto di trasferimento.
Il fatto
La fattispecie trova la sua origine nell’atto di trasferimento del 1987 di una testata giornalistica, con riguardo al quale, a fronte di un valore complessivo dichiarato per l’intera azienda di tre miliardi di lire, veniva dichiarato, per la voce unica “avviamento-marchio-testata”, il valore simbolico di una lira.
In diritto, invece, si caratterizza per la tenace posizione assunta dai giudici di merito e, in questo caso, anche dalla soppressa Commissione tributaria centrale, secondo la quale, in sede di valutazione dell’azienda e della voce avviamento, l’ufficio tributario dovrebbe tenere conto della persistente inattitudine dell’azienda a produrre reddito, emergente dai risultati economici negativi anteriori e successivi alla cessione della azienda medesima, tali da far ritenere corretta la riduzione dell’avviamento a valore simbolico, praticamente corrispondente al suo annullamento.
In linea generale, occorre ricordare che quest’ultimo orientamento è stato per svariati decenni registrato in numerose decisioni e sentenze delle Commissioni tributarie di merito che, in modo sistematico, hanno opposto alle argomentazioni contrarie degli uffici il corollario secondo cui, per una azienda in perdita, non può concettualizzarsi l’esistenza di un “avviamento commerciale”.
La posizione della Corte suprema
Sull’argomento, già in passato, la Corte di cassazione è opportunamente intervenuta (cfrCassazione, sentenze 2702/2002, 613/2006 e 2747/2012) “stoppando” il citato orientamento interpretativo dei giudici tributari e affermando più volte il principio che “in tema di determinazione della base imponibile dell’imposta di registro, ai fini dell’applicazione dell’art. 51, quarto comma,d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, l’esistenza di un valore di avviamento dell’azienda ceduta non può essere esclusa sulla base della sola circostanza che l’impresa cedente abbia subito perdite negli esercizi precedenti”.
La sentenza
Con la sentenza 22506/2015, la Cassazione è stata chiamata nuovamente a stabilire se – nel caso in disamina – l’assunto confermato dalla Ctc secondo cui, in presenza di perdite, l’avviamento non avrebbe potuto mai avere valore positivo, potesse trovare riscontro nella corretta applicazione del vecchio articolo 48, comma 3, Dpr 634/1972 ovvero del nuovo articolo 51, comma 4, Dpr 131/1986.
In tale attività, i Giudici supremi hanno preliminarmente definito i margini della statuizione dei primi giudici che si fondava manifestamente sul convincimento che la “persistente inattitudine dell’azienda alla produzione di un reddito” avrebbe comportato l’esclusione di un valore di avviamento superiore a quello simbolico di una lira. Per il giudice di secondo grado e per la Ctc, quindi, il mero fatto della presenza di perdite intervenute negli anni precedenti e anche in quello di cessione, in sé e per sé non poteva comportare un valore positivo dell’avviamento.
Tali affermazioni sono state ritenute giuridicamente erronee dalla Corte di cassazione, stante che l’avviamento, costituendo una qualità dell’azienda, possiede un valore che si somma a quello degli altri beni che compongono l’azienda stessa e tale operazione, anche considerando il testo della norma applicata, deve precedere la detrazione delle passività.
Sicché, il valore di avviamento non può essere aprioristicamente escluso né dall’esistenza né dall’ammontare delle perdite. In altri termini, aggiunge la Cassazione, le due norme che disciplinano la valutazione fiscale delle aziende vanno lette nel senso che, per gli atti che hanno per oggetto aziende o diritti reali su di esse, rileva il valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento, al netto delle passività.
Non ha mancato la Corte di legittimità, a conclusione della propria sentenza, di svolgere due necessarie considerazioni:
- una prima, relativa alla natura giuridica dell’“avviamento” nonché, implicitamente, al rapporto di strumentalità esistente tra l’azienda e l’impresa, attraverso l’affermazione che esso (avviamento) è un valore patrimoniale e, come tale, non configura un valore dell’attività d’impresa ma dell’azienda (obiettivamente considerata), un valore che non necessariamente risente dell’esito (in termini di utili o di perdite) dell’attività imprenditoriale
- una seconda, con la quale chiarisce il rapporto esistente tra l’avviamento e le perdite di esercizio prodotte negli anni precedenti alla cessione dell’azienda, affermando che la circostanza che un’impresa abbia prodotto delle perdite negli anni precedenti alla cessione dell’azienda, pur potendo, tale elemento, essere rilevante e meritevole di attenta considerazione ai fini della determinazione dell’avviamento commerciale, non esaurisce (non può esaurire) l’oggetto dell’indagine perché è ben possibile che l’impresa sia in perdita per ragioni che nulla hanno a che fare con l’avviamento aziendale (ad esempio, insufficiente liquidità, peso degli oneri finanziari, consistenza di perdite su crediti), sebbene l’azienda – correttamente gestita – persista nel possesso di un considerevole valore di avviamento.