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Una contabilità regolare e, quindi, formalmente inattaccabile, non dissolve i gravi e concordanti indizi che portano a presumere maggiori ricavi occultati e, perciò, non tassati. La Corte di cassazione, con provvedimento n. 14281 del 13 luglio 2016, statuisce che è legittimo l’accertamento induttivo del maggior reddito d’impresa basato sul “comportamento antieconomico e ingiustificabile del contribuente, per avere rappresentato notevoli e non verosimili perdite di esercizio derivanti dall’attività professionale.

 

Evoluzione processuale della vicenda

 

La vicenda trae origine dalla notifica di un avviso di accertamento, con il quale l’Agenzia delle Entrate procedeva alla rettifica del reddito derivante dall’attività professionale di un avvocato, per l’anno d’imposta 2000. Il contribuente impugnava l’avviso di accertamento dinanzi alla Commissione tributaria provinciale deducendo l’inapplicabilità degli studi di settore, avendo lo stesso optato per il regime contabile ordinario, e la infondatezza e illegittimità dell’accertamento, basato su inammissibili presunzioni, spettando all’ufficio di dare prova dei maggiori redditi non dichiarati. L’Agenzia delle Entrate aveva rilevato che i redditi dichiarati erano incompatibili con le caratteristiche e le condizioni della sua attività e che gli studi di settore erano stati utilizzati solo come termine di valutazione per la determinazione dei compensi, peraltro calcolati prudenzialmente nella misura del 50% di quelli previsti dal pertinente studio di settore.

 

La Ctp rigettava il ricorso e il contribuente ricorreva alla Commissione tributaria regionale. Anche quest’ultima respingeva l’appello, ritenendo legittimo l’operato dell’ufficio, che aveva rilevato un “comportamento antieconomico e ingiustificabile del contribuente, per avere rappresentato notevoli e non verosimili perdite di esercizio derivanti dall’attività professionale”, in diverse annualità e, quindi, aveva rideterminato in via presuntiva i compensi di lavoro autonomo, a norma dell’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973.

 

Avverso la sentenza di appello, il professionista ricorre per cassazione, contestando al provvedimento di secondo grado il vizio di extra o ultrapetizione, poiché, a parere del ricorrente, pur ritenendo inapplicabili gli studi di settore al contribuente in regime di contabilità ordinaria, la Commissione tributaria regionale, anziché annullare la sentenza di primo grado, l’aveva confermata, in base all’erroneo assunto della legittimità dell’accertamento.

 

Pronuncia della Cassazione

 

La Corte suprema, nell’accogliere il ricorso, osserva che “Il ricorso all’accertamento induttivo del maggior reddito d’impresa non è precluso dal riscontro di una contabilità (ordinaria o semplificata) formalmente regolare, allorché gravi, precisi e concordanti indizi militino nel senso dell’esistenza di maggiori ricavi, non desumibili dalla contabilità stessa (Cfr. sentenze numeri 26130/2007, 8643/2007, 5977/2007 e 26919/2006)”.

 

A giudizio della Cassazione, tale orientamento giurisprudenziale trova conferma nella disposizione dell’articolo 62-sexies del Dl 331/1993, per cui l’accertamento – condotto ai sensi dell’articolo 54 del Dpr 633/1972 – può essere fondato “anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore”. Si deve pertanto riconoscere, sulla base di tale premessa, la piena legittimità dell’accertamento induttivo di un maggior reddito d’impresa, rispetto a quello dichiarato ed eventualmente risultante dall’esame della contabilità aziendale formalmente regolare, qualora sussistano le gravi incongruenze configurate dall’articolo 62-sexies, in relazione alle caratteristiche proprie dell’azienda soggetta a indagine (cfr Cassazione 27085/2008).

 

Già la Corte suprema, con sentenza 5731/2012, aveva statuito che “in tema di accertamento delle imposte, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, consente la rideterminazione dei ricavi e, quindi, dei redditi su base induttiva, facendo ricorso a presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c., pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, quando la contabilità possa essere considerata complessivamente ed essenzialmente inattendibile”.
Ancora, con sentenza 23551/2014, i giudici di legittimità avevano affermato che “in tema di Iva il ricorso al metodo induttivo è ammissibile anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, che autorizza l’accertamento anche in base ad “altri documenti” o ad “altre scritture contabili” o ad “altri dati e notizie” raccolti nei modi prescritti”.
Con la sentenza 7838/2015, la Cassazione ha ulteriormente ribadito che “la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico – induttivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento del contribuente, essendo in tali casi consentito all’Ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova contraria a carico del contribuente”.

 

In conclusione, a giudizio della Corte suprema, quindi, nel caso di specie, la sentenza impugnata ha correttamente evidenziato come “il comportamento del contribuente non fosse suffragato da idonea giustificazione, risultando dalla sua dichiarazione che l’attività professionale svolta non era remunerativa e, addirittura, presentava perdite rilevanti in diverse annualità, con la conseguenza che correttamente i suoi compensi sono stati rideterminati in via presuntiva”.