È ammissibile la fruizione del Reddito di cittadinanza anche in seguito a condanna definitiva comprensiva dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici: l’importante decisione dei giudici di Piazza Cavour.
Una condanna subita diversi anni addietro e che abbia ulteriormente sortito tra gli effetti secondari l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, non preclude il diritto a usufruire del reddito di cittadinanza.
Reddito di cittadinanza: fruibile anche dopo interdizione dai pubblici uffici
Il “sussidio” è infatti finalizzato a soddisfare le esigenze primarie di vita per cui configurandosi nell’idea del legislatore come una misura di sostegno al reddito, ma soprattutto nella sua ratio come strumento di contrasto alla povertà e di lotta all’emarginazione, di fatto non può essere equiparato ad uno stipendio, una pensione e neanche a un assegno periodicamente corrisposti dallo Stato. Prestazioni queste si che ex lege invece vengono obbligatoriamente revocate con l’applicazione della pena accessoria.
Il Supremo Organo di Nomofilachia con un’interessante decisione (sentenza n. 38383 del 12 ottobre 2022 – Relatore: P. Messini D’Agostini) ridisegna in corsa le regole in relazione alle conseguenze penali subite del reo, legate all’applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici e lo fa, pronunziandosi su una questione quanto mai attuale in tema di erogazione di misure assistenziali, anche alla luce dell’importanza assunta dalla misura di sostegno al reddito introdotta nel nostro ordinamento dal Decreto n. 4 del 28 gennaio 2019 successivamente convertito nella Legge n. 26 del 28 gennaio 2019.
Il caso è di particolare interesse, perché permette di configurare e perimetrare con precisione quelli che sono i limiti e i casi di interruzione del sussidio per le esigenze primarie, cioè il Reddito di cittadinanza.
La decisione del Tribunale del Riesame
A carico di un uomo indagato per il reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, in sede di riesame era stato inflitto (tramite ordinanza emessa dal Tribunale di Vibo Valentia che confermava il precedente decreto adottato dal G.I.P.), il sequestro preventivo di somme di denaro nella disponibilità del soggetto.
Più precisamente la misura cautelare era stata disposta sul presupposto che l’uomo, avendo richiesto di ottenere l’erogazione del cosiddetto reddito di cittadinanza, in via contestuale, aveva formalmente omesso di comunicare l’esistenza di una sentenza di condanna definitiva a suo carico (legata a precedenti reati di rapina e sequestro di persona commessi oltre trent’anni prima), motivo per cui gli era stata applicata anche la pena accessoria dell’ interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Trattasi di un’ulteriore forma punitiva che priva il condannato “degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che siano a carico dello Stato o di un altro ente pubblico” e come tale dallo stesso Tribunale del Riesame, è stata valutata e ritenuta elemento determinante anzi circostanza ostativa anche all’ottenimento del sussidio di cui sopra. In particolare per i giudici di merito, il fatto che il reddito di cittadinanza si configuri come prestazione assistenziale utile alla “sopravvivenza”, e come tale assai diversa rispetto alle attribuzioni di maggiore consistenza come stipendi e pensioni, non esclude però che il condannato ne possa essere privato «anzi induce a ritenere che, a maggior ragione, il sussidio debba essere ricompreso tra le prestazioni revocabili».
Un beneficio al quale, secondo il Tribunale di Vibo Valentia, il soggetto non aveva diritto, perché alla condanna per l’appunto, si era ulteriormente aggiunta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
I motivi delle doglianze sollevate di fronte ai giudici di legittimità
Ritenendo errata ed ingiusta l’applicazione della pena accessoria inflitta a suo carico, il soggetto in questione si era allora rivolto ai giudici della Suprema Corte per impugnare la decisione di merito: secondo la difesa impostata dai legali che lo assistevano processualmente, il Tribunale del Riesame, nel riconoscere il reddito di cittadinanza come “prestazione assistenziale finalizzata a soddisfare le proprie esigenze di vita” avrebbe dovuto conseguentemente escluderne l’equiparazione allo stipendio, pensione o assegno, ossia a quel tipo di prestazioni revocabili in seguito ad applicazione della pena accessoria.
La Seconda sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 38383 del 12 ottobre 2022, ha ritenuto fondata la relativa doglianza ed ha conseguentemente disposto l’annullamento dell’ordinanza di sequestro.
La rivoluzionaria pronunzia dei giudici di Piazza Cavour
Secondo il pensiero seguito dai giudici di Piazza Cavour, il Tribunale di Vibo Valentia si era discostato dal parere espresso sulla questione nel giugno 2020 dal capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali su richiesta dell’INPS, parere peraltro fortemente invocato dalla difesa a sostegno della legittimità della richiesta e della concessione del beneficio. Orbene, la Corte di Cassazione ha ritenuto che le argomentazioni ricavabili dal suddetto parere fossero pienamente e giuridicamente condivisibili.
A tal proposito I giudici di legittimità suggeriscono di interpretare in via letterale le norme relative al sistema delle pene accessorie, nel rispetto fondamentale del noto principio della “tassatività” delle sanzioni penali.
In primis è fuori discussione il che il “bonus cittadinanza” possa essere compreso nella nozione di assegno: esso infatti viene caricato, così come prevede il comma 6 dell’articolo 5 della legge n. 26 del 2019, attraverso il sistema della “Carta Acquisti Rdc”, (non utilizzabile liberamente in tutti gli esercizi commerciali) “caratterizzata dalla prevalente finalità e utilità di soddisfazione di bisogni primari mediante la copertura delle spese di acquisto”.
Va anche rilevato – si legge nella decisione – che il reddito di cittadinanza ha natura e funzione ibride, come si evince dallo stesso incipit della legge che lo disciplina al comma 1 dell’articolo 1, dove viene definito quale “misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro“.
Senza contare che il comma 1, lett. c-bis dell’articolo 2 della legge n. 26 del 2019 fa espresso riferimento a “casi specifici ostativi all’ammissione al beneficio, legati alla commissione di gravi reati e all’epoca della pronuncia della sentenza definitiva, che deve essere intervenuta nei 10 anni precedenti la richiesta”. Nel caso di cui si discute gli anni effettivamente trascorsi erano già 30, motivo per cui il soggetto poteva tranquillamente presentare la domanda.
I giudici di legittimità aggiungono che attraverso questa disposizione il nostro legislatore “abbia voluto derogare al comma 2 numero 5 dell’articolo 28 c.p., come consente la stessa norma, là dove stabilisce che l’interdizione perpetua dai pubblici uffici priva il condannato di una serie di diritti salvo che dalla legge sia altrimenti disposto».
Di fatto in nessun punto la normativa afferente la fruizione del reddito di cittadinanza impedisce o nega l’erogazione di tale sussidio a tutti coloro che sono condannati alla pena accessoria dell’interdizione e di conseguenza non è giuridicamente possibile secondo gli assiomi del sistema legislativo italiano, un’applicazione estensiva per analogia. Al contrario della pensione o dello stipendio che nel caso di condanna vengono bloccati e sospesi, lo strumento del Reddito di cittadinanza non è paragonabile a un assegno e quindi può essere regolarmente mantenuto dal soggetto non rientrando nell’insieme dei sussidi revocabili ex lege.
Così conclude la Corte: “Mancherebbe quindi nel caso specifico il “fumus del reato” in relazione al quale è stato disposto il sequestro delle somme nei confronti del diretto interessato”. Motivo per cui l’ordinanza impugnata va quindi annullata.
La massima della Corte di Cassazione
La Seconda Sezione penale ha affermato che la condanna definitiva alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici non priva il condannato del diritto alla percezione del reddito di cittadinanza, posto che esso non è ricompreso nella nozione di “assegni… a carico dello Stato”, di cui quest’ultimo è privato ex art. 28, comma secondo, n. 5 cod. pen. e che la preclusione alla sua percezione è espressamente prevista dall’art. 2, comma 1, lett. c-bis), d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, in casi specifici, legati alla precedente condanna per reati ostativi, divenuta definitiva nei dieci anni precedenti la richiesta.