pregiudiziale-amministrativa-azione-penaleNel merito del rapporto tra azione penale e pregiudiziale amministrativa (paragrafi a. e b.) è poco diffusa la necessaria informazione, che con questo articolo si spera di diffondere, unitamente a quella che riguarda l’errore giuridico di cui al punto c.

a. Impossibilità di azione risarcitoria in sede civile, in caso di condanna penale della pubblica amministrazione

Chi denuncia un reato contro la pubblica amministrazione dal quale sia stato danneggiato non sa, a meno che non miri alla sola condanna di controparte, di stare perseguendo un obiettivo inesistente, data la preclusione della successiva azione risarcitoria.

Non sa, cioè, che l’azione penale non può più essere funzionale all’azione risarcitoria in sede civile, essendo quest’ultima stata sostituita, mediante il d. lgs. 104/2010, da quella da attivarsi, dinanzi al TAR, entro centoventi giorni decorrenti dalla data del fatto o da quella di conoscenza del provvedimento, se il danno derivi direttamente da questo (art. 30, comma 3, primo periodo), e/o, nel caso in cui sia stata proposta l’azione di annullamento di cui al precedente art. 29, in corso di giudizio e comunque entro centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza (successivo comma 5).

In conclusione: chi sporge querela contro una pubblica amministrazione di regola non ha esperito l’azione risarcitoria nei termini ai quali la stessa è vincolata per effetto dell’art. 30 del d.lgs. 104/2010.

L’eventuale condanna dell’ente non potrà essere seguita da esercizio di azione risarcitoria, data la preclusione determinata dal combinato tra art. 1227, comma 2, del codice civile, che non consente il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare “con un comportamento diligente del danneggiato”, e l’art. 30, comma 3, secondo periodo, del d. lgs. 104/2010, il quale stabilisce che “il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.

È, pertanto, automatico che il mancato ricorso al Tar concretizzi giuridico difetto di ordinaria diligenza.

b. Criticità ordinamentale

Posto quanto prima chiarito, si torna al punto di partenza: il danneggiato che sia correttamente informato non ha, di regola, interesse ad esercitare l’azione penale, essendo venuta meno, per effetto della pregiudiziale amministrativa, la possibilità della successiva azione risarcitoria in sede civile.

Ciò consente di “penetrare” nel merito del conflitto tra Corte di Cassazione e Consiglio di Stato che fece seguito all’introduzione, da parte del d. lgs. 104/2010, della pregiudiziale.

Va, infatti, da sé che quest’ultima, facendo venir meno l’interesse alla denuncia penale, dà luogo ad assoluzione preventiva del possibile reo, che danneggia il cittadino già leso, potendo il mancato ricorso al TAR essere dipeso da circostanze non riconducibili, nel merito, a difetto di ordinaria diligenza.

È, pertanto, affermabile che l’azione processuale non dovrebbe, per ratio ordinamentale, essere sottratta all’alveo della giustizia sostanziale, a differenza di come è stato fatto, attraverso:

  • da un lato, l’eccessiva limitazione dei tempi di azione risarcitoria da parte del cittadino;
  • dall’altro, la sostanziale impunità della pubblica amministrazione sul piano penale, con conseguente deresponsabilizzazione della stessa, a fronte del permanere, invece, delle linee ordinarie in rapporto ai reati posti in essere dal privato. In realtà, sarebbe meno iniqua una dinamica contraria, considerato che la pubblica amministrazione, essendo portatrice di pubblico interesse, richiede maggiore vigilanza sul proprio operato.

La finalità del legislatore che sta alla base della riforma del processo amministrativo avvenuta col d. lgs. 104/2010 è certamente stata di semplificazione ed economicità, ma, proprio per questo, non può essere ignorato un simile contraccolpo, con conseguente auspicio di adeguata azione propositiva da parte degli avvocati penalisti, potendo, una volta tanto, la difesa di interessi di categoria essere funzionale a benefici sociali.

c. Preclusione di indagine derivante da errore giuridico

Il punto di partenza è: l’atto illegittimo che non sia stato impugnato dinanzi al TAR nel termine di sessanta giorni (art. 29 del d. lgs. 104/2010) si consolida per mancata impugnazione: cioè non è più impugnabile, pur rimanendo ovviamente illegittimo (stiamo, infatti, parlando di conservazione dell’atto viziato e non di sanatoria, attraverso la conversione o l’acquiescenza).

È a questo punto che subentra l’art. 21 nonies della legge 241/1990, il quale consente all’interessato di chiedere all’amministrazione di ritirare d’ufficio l’atto.

Tale istanza viene definita di autotutela perché dà all’amministrazione la possibilità di valutare se accoglierla o meno in funzione delle eventuali responsabilità sul piano penale (in generale, non più anche su quello civile, dopo la riforma di cui si è detto nel paragrafo a.).

Ciò posto, va da sé che, per il fatto di essere decorso il termine entro il quale l’interessato avrebbe potuto impugnare l’atto dinanzi al TAR, nessun giudice (a parte specifici casi individuati dalla legge in rapporto all’esigenza di tutela sistemica di rilevanti interessi pubblici) può obbligare l’ente a rispondere all’istanza di autotutela e questa preclusione prende il nome di “insindacabilità del diniego di autotutela”.

Nessun giudice può cioè sindacare la scelta dell’ente di assumersi la responsabilità di tenere in vita l’atto illegittimo che non sia stato impugnato nei termini perentori di cui all’art. 29 del d. lgs. 104/2010.

Ciò ovviamente significa non che questa responsabilità non c’è, ma che, al contrario, la sua esistenza è sindacabile in base all’ultimo periodo dell’art. 21 nonies della legge 241/1990 (Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo).

Eppure ci sono giudicati che, esprimendosi come se il sindacato previsto da quell’ultimo periodo non esistesse (come se il privato destinatario di diniego di autotutela avesse perso ogni possibilità di azione) dovrebbero essere corretti almeno sulla base di una razionale lettura della sentenza n. 22431/2005 della Corte di Cassazione penale, Sez. VI,  la quale rende chiaro che, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 328, comma 2, del codice penale, l’istanza del privato è condizione necessaria ma non sufficiente, dovendosi collegare a quello che è l’obbligo della pubblica amministrazione di ritirare l’atto ove dallo stesso discenda una lesione perseguibile.

In tal modo, la sentenza afferma che, a fronte del mancato ritiro dell’atto in sede di istanza di autotutela e della conseguente querela successiva, è il giudice penale che deve valutare se la pubblica amministrazione fosse obbligata a provvedere, se ci sia cioè reato, in rapporto alla lesione che l’atto non annullato ha o meno prodotto.

In conclusione, i giudicati che ignorano l’ultimo periodo dell’art. 21 nonies della legge 241/1990 (Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo) disapplicano di fatto una norma di legge e sono, per questo, preclusivi dell’avvio dell’indagine eventualmente necessaria.

Il vizio formale di quei giudicati è, pertanto, la preclusione dell’indagine che la querela richiede. Si tratta di vizio conseguente al seguente errore giuridico: l’affermazione del mancato obbligo della pubblica amministrazione di provvedere a fronte dell’istanza del privato, come se al giudice penale quest’ultimo stesse assurdamente chiedendo di sindacare la mancata adesione dell’ente alla propria volontà e non invece di valutare se l’adozione dell’atto fosse resa obbligatoria da vincoli contenuti in norme di legge.

 


Fonte: articolo di redazione lentepubblica.it