Pensioni ai giovani, in particolare per chi ha cominciato a lavorare dopo il 1° gennaio 1996. Il presidente della Commissione Lavoro della Carnera, Cesare Damiano (Pd) rilancia la proposta.
In vista della prosecuzione del confronto tra governo e sindacati sulle modifiche al sistema pensionistico l’ex ministro del lavoro ricorda che uno temi centrali sul tavolo è la proposta della pensione di cittadinanza, una forma di garanzia finanziata in parte dalla fiscalità generale ed in parte dalla previdenza. “È prevista nella proposta di legge 2100 Gnecchi-Damiano: prevede che per tutti i lavoratori andati in pensione dal ’96 con il contributivo si assicuri un assegno base pari a quello sociale, circa 500 euro. Poi ciascun lavoratore aggiungerà i suoi contributi: ma questo assegno base è finanziato dalla fiscalità generale e in parte dalla stessa previdenza” ricorda Damiano.
“E’ una misura di civiltà, si evita che ci sia un esercito di nuovi poveri, prendendo come standard di dignità un assegno di 1500 euro lordi e integrando la parte mancante a tale soglia. Lo stesso principio è contenuto nel verbale firmato da governo e Cgil, Cisl e Uil lo scorso settembre. Chi ha alle spalle una carriera fatta di contratti a termine, licenziamenti, voucher, stage, non avrà i contributi sufficienti per un assegno dignitoso. Le risorse si possano trovare anche modificando i meccanismi interni allo stesso sistema previdenziale. Ad esempio con il contributivo non esiste più l’integrazione al minimo: reinvestiamo quei miliardi per la pensione dei giovani di oggi”.
“Per assicurare a chi lavora una continuità in vista di una pensione dignitosa – prosegue Damiano – che è parte necessaria della cittadinanza bisogna rivedere in più punti la normativa sul lavoro e sugli ammortizzatori sociali. A partire dalla normativa sull’articolo 18, che per quanto riguarda i licenziamenti collettivi e quelli disciplinari, dovrebbe vedere il ripristino in alcuni casi la reintegra. Poi devi rendere strutturali gli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato in modo da rendere questo contratto meno costoso di quelli flessibili: finora gli incentivi sono stati solo uno spot, alti nel 2015 e adesso quasi spariti; infine, gli ammortizzatori sociali: va ripristinata, in termini eccezionali e mirati, la mobilità, perché se perdi il lavoro intorno ai 60 anni e l’età di pensione è stata spostata di 5 o 6 anni, ti ritrovi un gap che non puoi più colmare con gli attuali sostegni. Noi abbiamo già fatto la prima parte, permettendo con l’Apedi anticipare l’uscita a 63 anni: adesso dobbiamo riformare gli ammortizzatori. Quest’anno ci sono già 185 mila lavoratori che finita la mobilità non avranno più l’incentivo alla ricollocazione e non è detto che arrivino alla pensione: sono nuovi disoccupati potenziali”.