parita-genere-cittadinanza-discendenza-maternaNell’approfondimento curato dal Dott. Nicola Schiralli una panoramica completa su parità di genere e cittadinanza, con focus sulla questione della discendenza materna prima della Costituzione Repubblicana e delle sentenze della Corte Costituzionale del 1975 e 1983.


Il riconoscimento della cittadinanza “iure sanguinis”: cenni introduttivi

Il riconoscimento della cittadinanza italiana “iure sanguinis” è richiesto dal discendente straniero (es. nipote) dell’avo italiano emigrato all’estero in Paesi dove vige lo ius soli, in quanto l’art. 7 della legge 555/1912 consentiva all’italiano residente all’estero di mantenere la cittadinanza italiana salvo che, dopo la maggiore età, l’emigrato o il discendente rinunciasse volontariamente alla stessa.

Prima di tutto occorre spiegare il perché si fa ancora oggi giuridicamente riferimento a una normativa così datata. L’art. 20 della legge n. 91/1992, legge attualmente in vigore per la cittadinanza, dice infatti “salvo che sia espressamente previsto, lo stato di cittadinanza acquisito anteriormente alla presente legge non si modifica se non per fatti posteriori alla data di entrata in vigore della stessa”. In poche parole, tutte le situazioni verificatesi anteriormente all’entrata in vigore della legge del 1992 sono regolate dalla normativa in vigore all’epoca dei fatti. La trasmissione di una cittadinanza avvenuta, per fare un esempio, per mezzo di un rapporto di filiazione datato 1952, è disciplinata dunque dalla normativa in vigore in quell’anno.

Per il positivo riconoscimento è fondamentale che per tutta la linea di successione (bisnonno-nonno, nonno-padre ecc.) non si sia rinunciato volontariamente alla cittadinanza italiana (o quantomeno lo si sia fatto dopo la nascita del/la figlio/a, e quindi dopo aver già trasmesso alla linea retta di sangue la cittadinanza) e la cittadinanza sia stata validamente trasmessa di padre/madre in figlio.

Si può richiedere il riconoscimento per via amministrativa (istanza corredata di tutta la documentazione dell’avo e dei discendenti presentata all’Ufficiale di Stato Civile del Comune italiano di residenza o, se residenti all’estero, al consolato italiano competente) oppure per via giudiziale (istanza al tribunale competente in base al luogo di nascita dell’avo), possibile però solo in tassativi casi [1].

Se si ottiene il riconoscimento, la cittadinanza ha effetto retroattivo (l’istante è italiano dalla nascita e non, come avviene negli altri casi, dal giorno successivo al giuramento, alla dichiarazione o al provvedimento che conferisce la cittadinanza). La circolare n. K.28.1 dell’8 aprile 1991 del Ministero dell’Interno stabilisce le modalità di riconoscimento.

La Legge 13 giugno 1912, n. 555 una legge discriminatoria?

Si tratta della prima legge che disciplina la trasmissione della cittadinanza per discendenza “iure sanguinis” (da genitore a figlio).

Con uno sguardo “aggiornato” la legge n. 555/1912 può considerarsi senza dubbio una legge discriminatoria, in quanto:

La donna poteva trasmettere la cittadinanza ai figli solo in caso di padre ignoto, apolide o impossibilitato a trasmettere la cittadinanza in base alla normativa del Paese d’origine (es. Brasile)

L’art. 1 della presente legge infatti recita:

“E’ cittadino per nascita: 

1)  Il figlio di padre cittadino;

2) il figlio di madre cittadina se il padre è ignoto o non ha la cittadinanza italiana, né quella di altro Stato, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza del padre straniero secondo la legge dello Stato al quale questi appartiene” […]

La donna italiana sposata con uno straniero acquistava la cittadinanza del marito perdendo la cittadinanza italiana automaticamente e a prescindere dal consenso della stessa.

Ancora, l’art. 10 comma 3:

“La donna cittadina che si marita a uno straniero perde la cittadinanza italiana, sempreché il marito possieda una cittadinanza che pel fatto del matrimonio a lei  si comunichi […]”

La disparità di genere nella trasmissione della cittadinanza nel caso appena trattato rifletteva difatti il ruolo sociale fortemente subordinato a cui era relegata la donna a livello familiare e normativo durante l’inizio del Novecento, periodo di entrata in vigore della legge n. 555 del 1912. La trasmissione per linea materna della cittadinanza rappresentava infatti un caso eccezionale e subordinato a una “causa di forza maggiore”, quella di evitare l’apolidia del nascituro.

L’opera riformatrice della giurisprudenza della Corte Costituzionale: le sentenze n. 87/1975 e n. 30/1983

Il quadro normativo esaminato sopra fa desumere chiaramente l’impossibilità da parte della donna coniugata con uomo straniero di trasmettere la cittadinanza al/la figlio/a.

Ad intervenire con fermezza sullo scenario, evidentemente discriminatorio, delineato dalla legislazione del 1912 ci ha pensato la Corte Costituzionale, con due storiche sentenze datate 1975 e 1983.

In dettaglio:

Sentenza n. 87 del 16 aprile 1975: dichiara incostituzionale l’art. 10 comma 3 della legge n. 555/1912, permettendo alla donna sposata di conservare la cittadinanza italiana, indipendentemente dalle vicende relative alla cittadinanza del marito.

Qui un importante passaggio della sentenza:

[…] L’art. 10 si ispira […] alla concezione imperante nel 1912 di considerare la donna come giuridicamente inferiore all’uomo e addirittura come persona non avente la completa capacità giuridica (fra l’altro a quel tempo non erano riconosciuti alla donna diritti politici attivi e passivi ed erano estremamente limitati i diritti di accedere a funzioni pubbliche), concezione che non risponde ed anzi contrasta ai principi della Costituzione che attribuisce pari dignità sociale ed uguaglianza avanti alla legge di tutti i cittadini senza distinzione di sesso e ordina il matrimonio sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi.

É indubbio che la norma impugnata, stabilendo nei riguardi esclusivamente della donna la perdita della cittadinanza italiana, crea una ingiustificata e non razionale disparità di trattamento fra i due coniugi.
La differenza di trattamento dell’uomo e della donna e la condizione di minorazione ed inferiorità in cui quest’ultima è posta dalla norma impugnata si evidenzia ancora maggiormente per il fatto che la perdita della cittadinanza
[…]  ha luogo senza che sia in alcun modo richiesta la volontà dell’interessata e anche contro la volontà di questa.

La norma impugnata pone in essere anche una non giustificata disparità di trattamento fra le stesse donne italiane che compiono il medesimo atto del matrimonio con uno straniero, facendo dipendere nei riguardi di esse la perdita automatica o la conservazione della cittadinanza italiana dall’esistenza o meno di una norma straniera, cioè di una circostanza estranea alla loro volontà.
La norma viola palesemente anche l’art. 29 della Costituzione in quanto commina una gravissima disuguaglianza morale, giuridica e politica dei coniugi e pone la donna in uno stato di evidente inferiorità, privandola automaticamente, per il solo fatto del matrimonio, dei diritti del cittadino italiano. Come rileva il giudice a quo, la norma non giova, rispetto all’ordinamento italiano, all’unità familiare voluta dall’art. 29 della Costituzione, ma anzi è ad essa contraria, in quanto potrebbe indurre la donna, per non perdere un impiego per cui sia richiesta la cittadinanza italiana o per non privarsi della protezione giuridica riservata ai cittadini italiani o del diritto ad accedere a cariche ed uffici pubblici, a non compiere l’atto giuridico del matrimonio o a sciogliere questo una volta compiuto”
[…]

In aggiunta, l’art. 219 dell’appena intervenuta legge n. 151/1975 (ora art. 17 comma 2 legge n. 91/1992) permette alla donna “danneggiata” dalla norma incostituzionale di recuperare con una dichiarazione la cittadinanza persa sulla base dell’art. 10 comma 3 della precedente normativa [2].

Sentenza n. 30 del 9 febbraio 1983: dichiara incostituzionale l’art. 1 n.1 della legge n. 555/1912 e consente alla donna di trasmettere validamente e pienamente la propria cittadinanza ai figli, allo stesso modo del padre e a prescindere dalla condizione di quest‘ultimo.

Anche qui è opportuno menzionare un saliente passaggio:

[…] la odierna pronuncia costituisce la logica proiezione, in tema di acquisto della cittadinanza per nascita, della ratio decidendi accolta nella sentenza n. 87 del 1975. Tale ratio, più che porre in rilievo la volontà del soggetto, consiste proprio nel riconoscimento delle conseguenze che derivano dai principi affermati nell’art. 3, primo comma, e nell’art. 29, secondo comma, della Costituzione. Invero, anche nella fattispecie ora esaminata, ciò che si valorizza è l’esigenza di una assimilazione giuridica nella comunità statale di coloro che vengono considerati, effettivamente o potenzialmente, integrati nella realtà socio – politica che l’ordinamento deve regolare. Tale rilievo, accolto dalla dottrina italiana che più si è occupata delle tendenze evolutive del diritto della cittadinanza in ambito europeo, corrisponde anche alla evoluzione del nostro diritto quale emerge dalla legge di riforma del diritto di famiglia del 1975 e dalla giurisprudenza di questa Corte.

[…]  la disciplina attuale, con il prevedere l’acquisto originario soltanto della cittadinanza del padre, lede da più punti di vista la posizione giuridica della madre nei suoi rapporti con lo Stato e con la famiglia. […]. Del pari la disciplina vigente lede la posizione della madre nella famiglia, se si considera la parità nei doveri e nella responsabilità verso i figli ormai affermata negli ordinamenti giuridici del nostro tempo (per l’Italia valgono soprattutto i novellati artt. 143 e 147 del codice civile).

In definitiva, l’art. 1, n. 1, della legge n. 555 del 1912 rappresenta una tipica espressione della diversità di posizione giuridica e morale dei coniugi, ritenuta necessaria dal legislatore di quel tempo per realizzare l’unità familiare, mediante l’assoggettamento della moglie e dei figli alla condizione, rispettivamente, del marito e del padre. Né va dimenticato che la disciplina impugnata contrasta con il principio di eguaglianza, giacché tratta in modo diverso i figli legittimi di padre italiano e di madre straniera rispetto ai figli legittimi di padre straniero e madre italiana […]”

Diretta conseguenza della sentenza è stata la promulgazione della legge n.123 del 21 aprile 1983, il cui art. 5 riporta la disposizione aggiornata. Esso recita: “è cittadino italiano il figlio minorenne, anche adottivo di padre cittadino o di madre cittadina”.

Le questioni aperte: il parere del Consiglio di Stato n.105 del 15 aprile 1983

Che succede dopo le due sentenze?

Ce lo illustra il parere della V sezione del Consiglio di Stato n. 105 datato 15 aprile 1983, di cui si riporta un importante passaggio:

“[…] Innanzitutto sembra che tale efficacia non possa in ogni caso retroagire oltre al momento in cui si è verificato il contrasto tra la norma di legge o di atto avente forza di legge – anteriore all’entrata in vigore della Costituzione – dichiarata illegittima, e la norma od il principio della Costituzione, cioè non possa retroagire oltre il 1° gennaio 1948, data di entrata in vigore di quest’ultima […]”

In sintesi, le sentenze e le relative novelle legislative “coprono” esclusivamente il periodo posteriore all’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana, quindi dal 1948 in poi.
Solo a partire dal 1 gennaio 1948 il figlio di madre italiana e padre straniero potrà essere validamente riconosciuto come cittadino italiano.
Ma non è ancora finita…

E i nati ante 1948? La sentenza n. 4466 del 25 febbraio 2009 della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite.

Il parere del Consiglio di Stato ha posto un ulteriore, fondamentale, mattone per l’eguaglianza giuridica tra uomo e donna nella trasmissione della cittadinanza, ma è necessario annoverare un ultimo passaggio per chiudere definitivamente (o quasi) la “partita”.

Nel 2009 è il turno della Cassazione (Sez. Unite), che con sentenza n. 4466 in data 25 febbraio, pur non sconfessando del tutto quanto precedentemente affermato dal Consiglio di Stato, afferma un ulteriore, importantissimo principio afferente al caso trattato.

La vicenda riguarda la figlia, nata nel 1962 al Cairo, di padre egiziano e madre italiana. Quest’ultima, non avendo fatto la dichiarazione prevista dall’art. 219 della legge n. 151/1975 (successiva alla prima sentenza della Corte Costituzionale) è stata dichiarata inidonea a trasmettere validamente la cittadinanza italiana “iure sanguinis” alla figlia richiedente.

La Suprema Corte infatti condivide il principio dell’incostituzionalità sopravvenuta [3], ma considera il diritto di cittadinanza uno “status” permanente ed imprescrittibile, e per questo è escluso dal principio di diritto enunciato validamente dal Consiglio di Stato. Il richiedente della cittadinanza può quindi essere tutelato in qualsiasi momento, anche sulla base di fatti avvenuti anteriormente al 1 gennaio 1948, in quanto danneggiato dagli effetti prodotti da una legge ingiusta nel rapporto di filiazione e di coniugio.

La massima della Suprema Corte afferma:

“La cittadinanza italiana va riconosciuta in sede giudiziaria alla donna che l’ha perduta per essere coniugata con cittadino straniero anteriormente all’1 gennaio 1948, in quanto la perdita senza la volontà della titolare della cittadinanza è effetto perdurante, dopo la data indicata, della norma incostituzionale, effetto che contrasta con il principio della parità dei sessi e della eguaglianza giuridica e morale dei coniugi (artt. 3 e 29 Cost.) […]“.

Il principio di diritto della Cassazione non è però mai stato tramutato in legge, e per questo motivo si può ad oggi riconoscere cittadinanza “iure sanguinis” derivante da un rapporto di filiazione da madre italiana e padre straniero avvenuto anteriormente al 1948 esclusivamente per via giudiziale, rivolgendosi al Tribunale competente [4].
Il riconoscimento per via amministrativa sarà dunque precluso, con l’Ufficiale dello Stato Civile che, dovendosi attenere alla normativa vigente, non potrà fare altro che opporre rifiuto scritto all’istanza ex art. 7 del D.P.R. n. 396/2000 (“regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile”).

Note

[1] Quando nella linea genealogica è presente una donna il cui figlio è nato prima del 1° gennaio 1948
2) Quando la linea familiare è maschile, oppure il figlio della donna italiana è nato dopo il 1° gennaio 1948. In tal caso, per presentare l’azione giudiziale, bisogna dimostrare che il Consolato competente a ricevere la domanda impiega un tempo eccessivo per decidere.

[2] Ai sensi del Formulario (D.M. 5 aprile 2002) la formula di stato civile da adoperare è la n. 90 “dichiarazione fatta da donna che, avendo perduto, anteriormente al 1° gennaio 1948, la cittadinanza italiana per effetto di matrimonio con uno straniero o di mutamento di cittadinanza da parte del marito, intende riacquistarla”

[3] secondo il quale la declaratoria d’incostituzionalità delle norme in vigore prima della Costituzione Repubblicana produce effetto soltanto sui rapporti e le situazioni non ancora esaurite alla data del 1 gennaio 1948, non potendo retroagire oltre l’entrata in vigore della Costituzione.

[4] con il comma 36 dell’art. 1 della legge di riforma del processo civile n. 206 del 26 novembre 2021 non è più esclusivamente il Tribunale di Roma, ma il Tribunale territorialmente competente in base al luogo di nascita dell’avo italiano

Le slide curate dal Dott. Schiralli

Qui potete consultare e scaricare in formato PDF le slide illustrative curate dal Dott. Nicola Schiralli.

 


Fonte: articolo del Dott. Nicola Schiralli - esperto in diritto del lavoro e diritto pubblico