Come noto le Sezioni unite della Cassazione – nella sentenza n. 45/2000 citata da queste in commento (11 aprile 2014, n. 8539 e n. 8543; 7 maggio 2014, n. 9765) – avevano composto il contrasto giurisprudenziale insorto nel seno della prima sezione civile in ordine alla rilevanza dell’elemento psicologico previsto in tema di preclusione all’utilizzo amministrativo e giudiziale dei documenti non consegnati a richiesta dell’ufficio finanziario o di organi a esso ausiliari.
Infatti, l’articolo 52, comma 5, del Dpr n. 633 del 1972, dispone, nella versione anche attuale, che i libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa e che per rifiuto d’esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi all’ispezione.
La Corte regolatrice del diritto con la sentenza, citata da questa in rassegna, 24 giugno 1995, n. 7161, aveva statuito che la suddetta preclusione opera “non solo nell’ipotesi di rifiuto (per definizione “doloso”) dell’esibizione, ma anche nei casi in cui il contribuente dichiari, contrariamente al vero, di non possedere o sottragga all’ispezione i documenti in suo possesso, ancorché non al deliberato scopo di impedirne la verifica, ma per errore non scusabile, di diritto o di fatto (dimenticanza, disattenzione, carenze amministrative, ecc.) e, quindi, per colpa”.
La Cassazione, nella sua più alta composizione, arrestò tale pericoloso orientamento contrastante con la sua prevalente giurisprudenza espressa con le sentenze, citate da questa in rassegna, 3 agosto 1990, n. 7804; 17 gennaio 1995, n. 480; 9 maggio 1997, n. 4058, cui si aggiunga la decisione 10 agosto 1995, n. 8772.
Le Sezioni unite, difatti, statuirono che affinché la dichiarazione, resa dal contribuente nel corso di un accesso, di non possedere libri, registri, scritture e documenti (compresi quelli la cui tenuta e conservazione non sia obbligatoria), richiestigli in esibizione, determini la preclusione a che gli stessi possano essere presi in considerazione a suo favore ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa, “occorre: a) la sua non veridicità o, più in generale, il suo concretarsi – in quanto diretta ad impedire l’ispezione del documento – in un sostanziale rifiuto di esibizione, accertabile con qualunque mezzo di prova e anche attraverso presunzioni; b) la coscienza e la volontà della dichiarazione stessa; c) il dolo, costituito dalla volontà del contribuente di impedire che, nel corso dell’accesso, possa essere effettuata l’ispezione del documento”.
Da tale impostazione i Supremi giudici desunsero che non integrano i presupposti applicativi della cennata preclusione le dichiarazioni (il cui contenuto corrisponda al vero) dell’indisponibilità del documento, non solo se ciò sia ascrivibile a caso fortuito o forza maggiore, ma anche se imputabile a colpa, quale ad esempio la negligenza e imperizia nella custodia o nella sua conservazione.
La pronuncia in commento applica tali criteri ermeneutici nell’ottica del principio di collaborazione e di buona fede (intesa in senso oggettivo) espressamente enunciato dall’articolo 10 dello Statuto dei diritti del contribuente, approvato con la legge n. 212 del 2000, gravante su entrambe le parti, nel corso del procedimento amministrativo, ritenendo che, da un canto, l’ufficio finanziario è tenuto a formulare richiesta di consegna dei documenti “specifica ed adeguata al caso concreto” e, d’altro canto, che il privato deve avere un comportamento collaborativo e trasparente.
In tal modo, viene esplicitamente ripreso quanto da ultimo affermato nell’ordinanza del Supremo collegio n. 1344 del 2010, secondo la quale detta normativa “trova applicazione soltanto in presenza di una specifica richiesta o ricerca da parte dell’Amministrazione e di un rifiuto o di un occultamento da parte del contribuente, non essendo sufficiente che quest’ultimo non abbia esibito ai verbalizzanti i documenti successivamente prodotti in sede giudiziaria”.
La questione oggetto dell’intervento della Suprema corte concerne l’applicazione del decimo comma dell’articolo 52, per il quale, se il contribuente dichiara che le scritture contabili o alcune di esse si trovano presso altri soggetti, deve esibire un’attestazione dei soggetti stessi recante la specificazione delle scritture in loro possesso e che, se l’attestazione non è esibita e se il soggetto che l’ha rilasciata si oppone all’accesso o non esibisce in tutto o in parte le scritture, si applicano le disposizioni del quinto comma.
Nella controversia di merito era stato, difatti, evidenziato dalle Corti territoriali l’operatività della presunzione assoluta di non veridicità della dichiarazione della società contribuente che le schede contabili clienti e fornitori, in quanto scritture ausiliarie di cui all’articolo 14, lettera c), del Dpr n. 600 del 1973, si trovavano presso un terzo, in quanto tale dichiarazione mendace è equiparabile a un sostanziale rifiuto di esibizione da parte del soggetto sottoposto ad accessi, ispezioni e verifiche.
Invero, proprio tale ultima assimilazione non pare corretta, in quanto la citata lettera c), nell’individuare le scritture ausiliarie in quelle ove “devono essere registrati gli elementi patrimoniali e reddituali, raggruppati in categorie omogenee, in modo da consentire di desumerne chiaramente e distintamente i componenti positivi e negativi che concorrono alla determinazione del reddito”, non pare possa annoverare anche le schede clienti e fornitori, salvo a considerare tali soggetti – in un’ottica funzionalmente orientata nella prospettiva economica-finanziaria – quali assets, come oggi si preferisce dire, ossia beni patrimoniali.
FONTE: Fisco Oggi – Rivista Telematica dell’Agenzia delle Entrate